La bonifica dell’Agro Pontino uno stucchevole fotoromanzo

Che accidenti c’azzecca col Ventennio questa storia dai colori caramellosi, a mezzo tra la Cavalleria rusticana e la saga bucolica – “Questa terra è mia”, nuova fiction di Canale 5 in otto puntate, la prima andata in onda nella fatale domenica 9 aprile, regia di Raffaele Mertes – non si riesce a vedere. Se non per la data sovrimpressa, dalla quale si evince che corre l’anno 1932, il decimo dell’era fascista. E che il lindo e pinto cascinale di Andrea (interpretato da Roberto Farnesi, il sempre bello di “Carabinieri”) si trova in un improbabile Agro Pontino (sud di Roma), all’epoca una specie di acquitrino paludoso dove si muore di malaria.
Ha pure l’aria di una scampagnata l’arrivo in treno, dalla natia Ferrara, di questa famigliola di similbraccianti, qui giunti per il duro lavoro della bonifica, gli uomini in completi molto cittadini e le donne con cappellini molto civettuoli. Perdio, si sta costruendo un’opera del regime sotto l’alta egida dell’Onc (l’allora potentissima Opera nazionale combattenti) e tutto deve essere doverosamente “distinto”. Va bene, il gerarca è fanfarone, ma quello è scontato, come la barzelletta sui carabinieri. C’è anche il cattivo della storia, impersonato dal ricco notaio amico del bieco latifondista, il giovin signore dal cuore democratico, la fanciulla del popolo tanto in fiore quanto virtuosa, la canaglia e il vile traditore, la buona madre (massaia) di famiglia, il ragazzo testa calda, la sciacquetta che mostra le gambe ai bulli del posto. E c’è il tipo sospetto per antonomasia, in fama di socialista, detto anche il sovversivo. Nè mancano, in tale cornice di basso populismo, le donnette infuriate che si tirano per i capelli e si fanno i classici dispetti di donnette, l’amore conteso per la bella ma povera venuta da lassù, il misterioso e nemico nord, il medico buono, la Signora d’alto bordo, il kapò furfante.

Insomma – a giudicare dalla prima puntanta – trattasi di puro fotoromanzo, Grand Hotel cinquant’anni dopo, il tutto dentro la cornice edificante del regime dedito alle opere di bene. Anzi alla Grandi Opere (ce ne erano anche allora, sì). Versione “regime “buono”.

Usciamo un momento dal fotoromanzo, dai sui bei colori. La bonifica dell’Agro Pontino, di cui tratta la romantica fiction, nasce nel quadro della cosidetta “bonifica integrale” lanciata nel 1928 con la “Legge Mussolini”, sette miliardi di allora da devolversi nell’arco di quattordici anni sotto la voce risanamento dei terreni agricoli paludosi, nonché all’insegna del “grandioso” progetto ducesco contro l’urbanesimo e pro incremento demografico.

All’impresa, sotto l’egida della potentissima Opera nazionale combattenti, parteciparono migliaia di disgraziate famiglie in maggior parte provenienti dall’Emilia e dal Veneto, rimaste senza terra e senza salario, letteralmente alla fame. Dal “titanico” sforzo dovevano nascere nuove città, Littoria dall’evocativo nome (poi ribattezzata Latina), Sabaudia, Pontinia, Pomezia, Aprilia, Ansedonia. Trionfali foto d’epoca ritraggono un Mussolini più a petto in fuori che mai, in visita nei patriottici ettari bonificati a bordo di Maserati scoperta o a torso nudo a mietere “il primo grano” a Sabaudia.

Ma, fuori dal fotoromanzo, che Italia è quella? La popolazione conta 41 milioni, la paga mensile di un bracciante è di 90 lire, 200 quella di un operaio. Il pane costa 2 lire al chilo, la carne 16, lo zucchero quasi 8; il sistema Italia, dopo dieci anni di fascismo è in piena crisi, le quotazioni azionarie crollano del 40 per cento, il settore agricolo dell’11, quello manufatturiero del 15; i fallimenti sono 14 mila e i protesti 2 milioni nel solo 1931. I disoccupati sono più di un milione. E l’Italia passa, all’epoca, come il paese più tartassato del mondo. In un decennio scarso, il fascismo ha infatti aumentato le imposte da 12 a 21 miliardi (5 miliardi solo negli ultimi cinque mesi), su ogni chilo di pane, che costa 2 lire, si pagano 0, 60 centesimi di tassa. Nasce il capitalismo di Stato foraggiato a colpi di banditeschi provvedimenti protezionisti e miliardi pubblici elargiti a fondo perduto, ma un giro di vite spietato schiaccia i ceti più deboli, operai e contadini, la spesa pubblica è ferocemente tagliata, le cosidette leggi anticonsumo impongono di tirare ancora più la cinghia in un paese dove la gente non può permettersi di comprare lo zucchero e la carne. E il 1931-1932 sono ricordati come gli anni in cui il regime decide di abbassare «per legge» salari e stipendi.

Non si fa fatica a capire come, dal Veneto, dal Friuli, dall’Emilia dove la disoccupazione è una falcidia e si muore letteralmente di fame, si muovano verso le nuove terre promesse dell’Agro Pontino migliaia di famiglie: tutte scappate da quelle campagne dove decine di migliaia di ettari sono stati svenduti dai piccoli proprietari ridotti sul lastrico (anche per via delle tasse mussoliniane). Ognuno di loro, oltre la casa colonica col forno per il pane e il pollaio, un carro, attrezzi agricoli, avrà il “libretto colonico”: lì viene versato il miserabile salario, da 50 a 600 lire a famiglia (almeno 6 membri ciascuna) ogni due settimane.

E’ il momento, quell’anno 1932, della retorica altisonante; Mussolini è al culmine del potere, l’opposizione è stata distrutta o langue in carcere, Carnera trionfa, Nuvolari fa impazzire l’America, il Concordato mette d’amore e d’accordo Chiesa e regime, e appare la Balilla, “l’Eleganza della Signora”.

Là nell’Agro Pontino i coloni faticano da schiavi, sputano sangue e muoiono in tanti di malaria. Ma Mussolini li manda a morire in ospedali lontani. Questo non si doveva sapere.

MRC