La bella età di Jagger e compagni

D’accordo, ci avete fatto divertire, avete accompagnato un pezzo della nostra vita con canzoni che ascoltiamo ancora oggi, ma adesso toglietevi dai piedi. Diteci che cosa dobbiamo darvi e lasciateci coltivare il vostro ricordo da vivi e non da mummie. Confesso di avere avuto più volte la tentazione di scrivere queste righe di fronte a più o meno inaspettati ritorni in scena di pezzi della ormai lunghissima storia del rock e del pop mondiale. Tutto fa brodo per l’asfittica industria discografica e meno male che ancora la clonazione tarda a produrre effetti concreti e accettabili altrimenti chi ci salverebbe da qualche centinaio di Elvis e da un gruppo di Beatles per ogni continente? Confesso che un paio d’anni fa ho pensato di mettere nel mucchio anche i Rolling Stones, quegli arzilli vecchietti che ieri hanno fatto saltare lo stadio Meazza di Milano. Pensavo di utilizzare come prova d’accusa una dichiarazione di Mick Jagger che nel 1972 diceva: «A trentatre anni mollerò tutto… Non voglio essere un cantante di rock and roll per tutta la vita. Non potrei sopportare di finire come Elvis Presley a cantare a Las Vegas per le vecchie signore…». Ce n’era a sufficienza per mettere in caricatura lui e il gruppo, ma se l’avessi fatto avrei sbagliato. Mick Jagger e soci stanno dimostrando di essere veramente un mondo a parte. In primo luogo invece di vivere di rendita sui successi di un tempo l’anno scorso hanno registrato A bigger bang, un album della madonna (nessuno s’offenda, l’ho scritto in minuscolo ma rende l’idea), che per me è il loro più bello da venticinque anni a questa parte. E poi perché non giocano con i rimpianti, non fanno i gigioni con il passato e non ci accarezzano i capelli con la nostalgia del tempo che fu. Ci sbattono in faccia la loro età e ci insegnano a fottercene. Mettono in bella mostra i loro volti non rifatti (di questi tempi per chi vive nel mondo dello spettacolo è quasi rivoluzionario) pieni di rughe come vecchi pellerossa che portano i segni della vita e si divertono a prendere a calci in culo il tempo che passa e chissenefrega se ormai non è sempre dalla loro parte. A ben guardare hanno sempre fatto così. Nella seconda metà degli anni Settanta quando i punk li sfottevano e definivano Mick Jagger «una vecchia checca tutta lustrini e niente sostanza» loro rispondevano con l’album Some girls, un concentrato di adrenalina fatto apposta per sfidare sul loro terreno Sex Pistols e compagni. Oggi si sono permessi di tirare un cazzottone in mezzo ai denti a Bush, ai conservatori statunitensi e ai deliri imperialisti degli Usa. Insomma, il tempo passa ma i diabolici vecchietti sono ancora in grado di annusare l’aria e quando c’è da menar le mani non si tirano indietro. Non lo fanno a caso, così perché fa moda. Infatti si sono tenuti ben lontani dalla melassa targata Bob Geldof e Bono così universale da non far mai capire chi ha torto e chi ragione. Incrociano la politica quando ritengono sia il momento di farlo e basta, senza troppe spiegazioni, come accaduto soltanto un annetto fa quando ad Angela Merkel, la candidata premier della destra tedesca, hanno fatto sapere di non aver autorizzato e di non apprezzare l’uso del loro brano “Angie” in campagna elettorale. Da quarant’anni le strade dei Rolling Stones si sono incrociate spesso con la politica, a partire da quel 9 ottobre 1964 quando un giovane Mick Jagger annunciò l’annullamento della tournée sudafricana dicendo: «…non andremo in un paese che discrimina gli uomini sulla base del colore della pelle. Consideriamo l’apartheid una vergogna per tutto il genere umano al quale, fino a prova contraria, appartengono anche i musicisti». Erano all’inizio della loro carriera e nessuno gliel’aveva chiesto. Potevano fottersene dell’apartheid e andarci con la scusa che la musica è un linguaggio universale, come un decennio dopo faranno i Queen, ma non lo fecero. Così come due anni dopo in un concerto a Syracuse, negli Stati Uniti impegnati nella sporca guerra del Vietnam, Jagger trovò modo di solidarizzare con i ragazzi che bruciavano le cartoline della chiamata alla leva trascinando sul palco una bandiera a stelle e strisce e calpestandola più volte. Oggi come ieri nei Rolling Stones c’è una capacità eversiva che va al di là della maschera costruita dai media e che, come si vede dal pubblico che assiste ai concerti, viene percepita anche da chi non era neppure al mondo quando loro compivano quarant’anni. In questa dissacrante capacità eversiva c’è forse il segreto della longevità di una band che Tom Wolfe definiva “spauracchio della borghesia” perché capace di creare un legame istintivo con i “bassifondi della vita”. E per essere credibili non si finge. «Non ci si può ritirare nel paese di Peter Pan e cercare di competere con i ventenni. Non avrebbe senso. Anch’io ho avuto vent’anni e ho mandato a quel paese i vecchi bastardi. E’ un fatto naturale…». Parola di Keith Richards.