L´80% dei giovani trova lavoro grazie a amicizie e laurea giusta

Riparte la selezione di classe, meritocrazia addio.
C´è un gruppo di facoltà universitarie che richiede costi individuali e familiari minori: è la via verso il precariato
Metà dei figli di professionisti e dirigenti conclude l´università, contro il 10 e 7% dei figli di negozianti e operai
Solo il 10% ha accesso agli studi all´estero. Si allarga la forbice delle opportunità
Ingegneria è scelta dal top della scala sociale, i corsi socio-politici dalla fascia più bassa

ROMA – Trovo Silvano sul telefonino a Londra, dove è andato per lavoro. Figlio di laureati in legge, Silvano ha sempre voluto diventare ingegnere. Maturità scientifica nel 1992, laurea con 110 e lode nel ‘99, è partito subito militare ed ha cominciato a lavorare, il giorno del congedo, per una società internazionale di consulenza. Sponsorizzato dall´azienda, ma a sue spese, ha fatto un master alla Bocconi e poi in America. Oggi, a 31 anni, è dipendente a pieno titolo e guadagna intorno a 70 mila euro l´anno, un po´ meno di 3 mila euro, nette, al mese.
Flavio, invece, lo trovo sul telefono fisso di casa, quella dei genitori. Né papà né mamma hanno finito l´università: uno gestiva una piccola azienda di pubblicità, l´altra lavora alle dogane. Maturità scientifica nel ‘95, laurea in Scienza delle comunicazioni, con 108, nel 2002: “sembrava il mestiere del futuro” dice. Invece, in tre anni, è riuscito a collezionare solo qualche “contratto a progetto”. “Futuro zero, per quanto tu possa essere bravo: al padrone interessa il progetto, non tu”. In tutto, ha lavorato per dieci mesi, sommando tre o quattro contratti, mai più lunghi di tre mesi. Adesso, a 28 anni, spera di aver centrato un contratto un po´ più lungo, da settembre, con la Regione: 8-9 mesi, 30 ore di lavoro al mese, per uno stipendio di 5-600 euro.
Sono due storie ai due estremi dell´onda di laureati che, anno dopo anno, l´università riversa nel calderone della società. Una, probabilmente, più esemplare dell´altra. Silvano è al top e sa di esserlo. “Attenzione – avverte – io non sono un benchmark”, una pietra di paragone: “bene come a me è andata a pochissimi, anche fra i miei compagni di università”. Flavio, invece, quando si guarda intorno, si trova tutt´altro che solo. “Molti dei miei compagni – dice – dopo la laurea hanno lasciato perdere e sono tornati, ad esempio, in negozio dai genitori”. O lo hanno aperto, come Lucia: figlia di impiegati, a 32 anni, dopo la lunga gestazione di una laurea in Scienza delle comunicazioni, alla fine sta per prenderla, ma solo per aprire un negozio di prodotti naturali. Sullo sfondo di queste storie, l´annuncio che tre quarti dei nuovi laureati sono anche i primi laureati delle loro famiglie dice, forse, della società italiana, un po´ meno di quello che sembra.
Aver finito l´università, naturalmente, conta: la divisione fra laureati e non laureati è uno dei grandi spartiacque sociali. “La laurea – sottolinea Maurizio Pisati, che insegna sociologia a Milano – fa fare il grande salto. L´analisi degli ultimi venti anni dimostra che il famoso “pezzo di carta” ha ancora intatto il suo valore”. Non è un salto uguale per tutti. I dati di Pisati mostrano che, ad approfittare del rigonfiamento delle iscrizioni all´università, sono stati in massa anzitutto i borghesi, i figli di imprenditori, dirigenti, professionisti e, via via decrescendo, i figli di impiegati, di commercianti, di operai. Non in numeri assoluti, certo: figli e figlie di commercianti e operai sono enormemente aumentati all´università. Ma in proporzione alla classe d´origine. Per dirla con i sociologi, in termini di opportunità. Un figlio della borghesia ha il 50 per cento di possibilità di laurearsi, un figlio di impiegati il 30, di commercianti il 10, di operai il 7-8 per cento. Rispetto a 100 anni fa, quando il 20 per cento dei borghesi e lo 0 per cento degli operai si laureava, la forbice delle opportunità non si è ristretta, si è allargata. “Il grande volano di disuguaglianza – secondo Pisati – comunque è la scuola fatta prima. Dei nati negli anni ‘70, partono in 100 alle elementari, ne arrivano all´università 31. Dentro ci sono tutti i figli della borghesia, ma, per gli altri, in quote decrescenti”. Una volta dentro, tuttavia, la laurea è un grande passaporto, anzitutto per il mondo del lavoro. Di cui fruiscono tutti. L´Istat ci informa che tre quarti dei laureati del 2001, aveva un lavoro nel 2004. Ma quale lavoro? Ecco un´altra divisione: non tutte le lauree sono uguali.
Poco più di metà dei laureati, infatti, ha trovato un posto fisso. E, qui, le differenze sono evidenti. Fra i laureati in lettere che hanno trovato un lavoro, neanche un terzo ha un contratto a tempo indeterminato. La percentuale sale al 34 per cento per gli psicologi, al 50 per cento per quelli che hanno fatto Scienze politiche. Ma è fra i due terzi e i quattro quinti per i laureati in ingegneria, in scienze, in medicina, in architettura, in economia, in legge. In più, non è il lavoro a cui pensavano: metà dei laureati in scienze umanistiche e sociali, al contrario dei loro colleghi delle altre facoltà, fa un lavoro per cui non occorreva avere la laurea. Si sono accontentati di quello che hanno trovato. Le storie di Silvano, di Flavio, di Lucia si specchiano nei dati dell´Istat.
E´ difficile cogliere questi dubbi, nell´eccitazione che, la sera della tesi, celebra, davanti alla famiglia allargata, in salotto o al ristorante, il primo laureato di casa. E, d´altra parte, non c´era bisogno di aspettare l´Istat, per sapere che, sul mercato, ingegneria vale più di lettere. Ma le carte erano segnate, prima ancora di uscire dal mazzo? Secondo i dati raccolti da Pisati, è al top della scala sociale che, più facilmente, si scelgono i corsi, per così dire, a più alto valore aggiunto: ingegneria, medicina, legge o una materia scientifica. Lettere sta a metà, mentre le lauree a impostazione politico-sociale sono favorite nella metà più bassa della scala. L´unica sorpresa è Economia, assai ambita dalla piccola borghesia dei commercianti. Secondo Benedetto Vertecchi, che insegna pedagogia a Roma, c´è un altro indicatore indiretto: il grande afflusso all´università, numericamente sostenuto dalle classi meno favorite, ha gonfiato certe facoltà piuttosto che altre. “Se gli iscritti a Musica e Spettacolo – osserva – sono dieci volte il totale degli iscritti a tutti i corsi scientifici, qualcosa non funziona”.
Sono le facoltà che meno richiedono frequenza, senza i vincoli dei laboratori e che, dunque, consentono un impegno più irregolare, lasciano spazio ad un lavoro, esigono un minor investimento personale e familiare. Complessivamente, infatti, la nostra è una università con oltre l´80 per cento di fuori corso e il 70 per cento di studenti impegnati, sia pure saltuariamente, in qualche lavoro. Vertecchi definisce queste facoltà “la via povera agli studi”, nel senso del suo costo, ma anche del suo risultato. Da questo punto di vista, sostiene, “la selezione sociale, che si era indebolita negli anni ‘70 e ‘80, si ripresenta a partire dagli anni ‘90”. Ad alimentarla, c´è anche il progressivo svuotamento, riforma dopo riforma, dei canali istituzionali dell´istruzione. “Quanto meno sostanzioso l´apporto degli studi secondari, tanto più importante diventa quella seconda scuola che è la famiglia”. Quell´antica divisione di casta che, una volta, segnava chi aveva fatto il liceo classico e chi no, si ripresenta sotto una nuova forma. Il nodo è sempre quello di allargare la cultura di base, moltiplicare il tasso di esperienze, allenare la capacità di interpretare e inquadrare situazioni nuove, avere il tempo e la possibilità di imparare anche quello che non serve subito. In una scuola indebolita, questa funzione oggi, secondo Vertecchi, ricade sulle famiglie: le lingue, i viaggi, gli studi all´estero che, oggi, solo il 10 per cento degli studenti italiani compie, tutto ciò che è cultura non scolastica. Dai libri di casa all´esperienza, sia pure occasionale, di un concerto che non sia solo quello di un cantante rock. “Arricchire il profilo” dicono gli studiosi di pedagogia. Tutto questo, di cui i più sono “drammaticamente sprovvisti”, infatti, alla lunga, dopo la laurea, secondo Vertecchi, si incassa: “gli studi internazionali mostrano che una cultura che crea solo competenze specifiche ha un tempo relativamente breve, quello delle specifiche competenze”. “Poi entra in gioco la capacità di adattamento, di risolvere problemi, di interpretare testi, di affrontare situazioni sconosciute”.
La cultura di base, la laurea, possibilmente quella “giusta”, e la famiglia “giusta”. Ma a sgelare il ricambio sociale non c´è anche l´intraprendenza individuale, la somma delle success story dei singoli che sono stati capaci di aprirsi la loro strada? Be´, in verità, poco. Se sul tasso di mobilità sociale, cioè di allargamento delle classi superiori, da una generazione all´altra, molti sono pronti a discutere, sulle possibilità di promozione personale del singolo, i dubbi sono pochi: a livello generale, l´Italia è uno dei paesi meno meritocratici d´Occidente. “La differenza con gli altri paesi, quando si guarda alle carriere, è drammatica” dice il sociologo Antonio Schizzerotto. “Merito? Iniziativa individuale? All´estero, il 50 per cento dei giovani trova lavoro grazie al network di amici, parenti, conoscenti. Il resto ci riesce da solo. In Italia, è questa rete di sostegno a catapultare nel mondo del lavoro l´80 per cento dei giovani” sottolinea Giuseppe Roma, direttore generale del Censis. “E, quando entrano, si fermano”. L´italiano entra in un ufficio o in una fabbrica in una casella (spesso mediamente più elevata di quella che sarebbe all´estero) e poi si muove, al massimo. una casella più su. “Il 90 per cento dei laureati – dice Schizzerotto – comincia e finisce come impiegato di concetto”.
Il sociologo Ivano Bison ha studiato le carriere degli italiani. Dieci anni dopo l´ingresso nel mondo del lavoro, l´85 per cento degli impiegati è ancora impiegato e l´80 per cento degli operai è rimasto operaio: solo il 10 per cento è riuscito a diventare impiegato. Meno di un quarto degli operai non qualificati ha raggiunto la casella di operaio qualificato. In totale, due terzi degli intervistati, dieci anni dopo stanno esattamente al punto in cui avevano iniziato. Progressi? Zero: fra i nati dopo la guerra e quelli nati negli anni ‘70 nulla sembra cambiato.