Dice una frase fatta, cara a molti americani, che «due torti non fanno una ragione». Dopo l’11 settembre 2001, gli Stati Uniti avevano una possibilità: raccogliere la solidarietà del mondo, e dare un segnale di civiltà rispondendo alla violenza che li aveva colpiti senza lasciare impuniti i colpevoli ma riaprendo il dialogo civile con il mondo che gli attentatori abusivamente pretendevano di rappresentare, e che con la loro azione infangavano. Fecero un’altra scelta, e quella guerra che, con la rapida vendetta, avrebbe dovuto sanare la ferita dell’11 settembre non ha fatto altro che farla suppurare e marcire.
Nel mondo, il prestìgio degli Stati Uniti [nonostante Sarkozy e Angela Merkel) non è mai stato così in basso. E al loro interno, la spaccatura fra sfera politica e vita quotidiana ha preso dimensioni tali che i timori italiani sull’antipolitica al confronto sono una barzelletta.
La scoperta che una guerra basata sulle menzogne va verso il disastro si è innestata sulla scoperta, dopo il disastro di Katrina, dell’incapacità colpevole dei governanti e del loro disprezzo verso i governati. E adesso si aggiunge la catastrofe dei mutui, la scoperta che le banche e chi dovrebbe controllarle avevano ingannato i cittadini proprio su quel terreno – la casa -attorno a cui si addensa il «sogno americano» della proprietà privata e della famiglia. Sotto pelle, proprio in quell’America con la testa ancora piantata nel mondo rurale, nel Kansas o nell’Oklahoma che hanno votato repubblicano in odio alle élite liberali urbane, vive forse ancora la memoria populista delle banche come nemici immediati della gente comune, dai movimenti di lotta rurali d’inizio ‘900 alla Depressione degli anni ’30.
Basta rileggersi i primi capitoli di Furore di Steinbeck, o riascoltare Woody Guthrie. E forse c’è ancora memoria delle casse di risparmio («Savings and Loans») salvate dalla bancarotta negli anni ’90 dal governo con i soldi dei contribuenti (e anche lì, i conflitti d’interesse erano più che giganteschi).
Adesso che si trovano con insostenibili debiti sulle carte di credito, i cittadini americani forse cominciano a ragionare su un governo che dopo l’11 settembre li incitava a combattere il terrorismo comprando e consumando il più possibile, nell’euforia di una Amerìcan way of life basata sul debito dei cittadini verso le banche, delle banche verso altre banche, e del paese intero verso il resto del mondo.
Per forza che i sondaggi dicono che la gente è stanca di commemorazioni vuote, che crolla la fiducia nel governo, e che aumenta la fiducia nei militari – non nel senso di governo militare (in un certo senso, quello c’è già), ma come istituzione che credono separata dalla politica. Sarà antipolitica, ma le cause sono tutte politiche, ed è la debolezza delle politiche alternative che gli lascia spazio.
È il segno di una crisi vera della democrazia rappresentativa, della crescente separazione in tutto l’Occidente fra eletti ed elettori (votanti e astenuti).
La favola parla anche di noi. Se temiamo come «antipolitici» quelli che vanno in piazza con Beppe Grillo, e pensiamo che versare un euro per scegliersi il capo del «non-ideologico» partito democratico sia partecipazione democratica, siamo sulla stessa strada.
Scrivo queste righe prima di correre all’aeroporto e andare in Cile. Anche lì è un 11 settembre, anniversario del golpe. Chissà però che non si raccontino altre storie.