Sulla crisi finanziaria internazionale abbiamo chiesto un parere all’economista Vladimiro Giacchè.
Innanzitutto qual è il tuo giudizio sulla situazione che si è creata con il fallimento della superbanca Lehman?
Il fallimento di Lehman è un evento di enorme portata simbolica. E’ l’11 settembre delle banche americane, la fine dell’epoca della deregulation e della religione del mercato. Crolla un sistema sorretto dall’illusione – o meglio: mistificazione – di un mercato autosufficiente e in grado di autoregolarsi, a fronte di uno Stato inutile o dannoso. Ora lo Stato viene chiamato di corsa in soccorso del mercato. Per tamponare la crisi e socializzare le perdite. Soltanto nella settimana scorsa, dopo il fallimento di Lehman, gli Usa hanno effettuato il salvataggio pubblico della compagnia assicuratrice Aig per 85 miliardi di dollari, e poi misure che costeranno allo Stato qualcosa come 1000 miliardi di dollari: un ente pubblico comprerà dalle banche i mutui e titoli di credito che hanno in portafoglio; un fondo di 50 miliardi per aiutare i fondi monetari in crisi, e altri 230 miliardi di dollari destinati per prestiti a banche in difficoltà.
Il dollaro si trovava in serie difficoltà negli ultimi tempi. C’è un nesso con la bancarotta del 15 settembre?
Il dollaro aveva recuperato sull’euro nelle ultime settimane. Ora però il problema si ripropone: perché le misure decise giovedì 18 ingigantiscono il debito pubblico Usa. Che il rating del debito pubblico americano sia declassato non è più un’eventualità remota. E qualcuno già si chiede se gli Stati Uniti non rischino di andare in bancarotta, come un tempo succedeva ai paesi del terzo mondo. Tutto questo dovrebbe indebolire il dollaro.
La crisi americana non data da oggi. Ma dopo il tracollo finanziario di questi giorni, gli Usa sono ancora “egemoni” sul piano mondiale?
Dipende dal significato che si attribuisce alla parola “egemonia”. Quella economica e produttiva in senso stretto gli Stati Uniti l’hanno persa da un pezzo: lo prova il fatto che la loro bilancia commerciale è in passivo da più di 30 anni. I consumi sono stati gonfiati artificialmente negli ultimi anni proprio attraverso prodotti come i mutui subprime: di fatto, a fronte di diseguaglianze crescenti e della perdita di potere d’acquisto di gran parte della popolazione degli Stati Uniti (sono dati statistici ufficiali), si creavano prodotti finanziari che consentivano di comprare (case, ma anche automobili e altro) attraverso il debito. Una specie di droga finanziaria per le famiglie americane sempre più povere. Questa è la radice economica della crisi finanziaria attuale. Ora questa crisi colpisce alla radice anche il settore finanziario Usa, che aveva mantenuto un’egemonia a livello mondiale.
Tu hai segnalato più volte come la “guerra infinita” di Bush sia strettamente correlata all’economia. C’è il rischio che questa crisi porti a nuove imprese belliche Usa?
L’unico settore in cui l’egemonia statunitense è ancora indiscussa è quello militare. Di qui anche il rischio che l’establishment Usa sia tentato, anche in questa occasione, di far ricorso all’arma del warfare – accentuando le tensioni internazionali e dando qualche colpo all’Iran o altrove – per ridare fiato al settore bellico, e magari anche per orientare il voto di novembre in maniera favorevole al candidato repubblicano.
Il rapporto tra grande finanza e imperialismo è stato molto studiato. Oggi qual è la differenza rispetto ai meccanismi classici dell’imperialismo?
Secondo Lenin l’imperialismo era una fase del capitalismo contraddistinta da un’enorme concentrazione dei capitali, dal predominio del capitale finanziario, da un’importanza maggiore dell’esportazione dei capitali rispetto alle merci, e da accordi di cartello tra i grandi monopolisti a livello mondiale. Sin qui direi che ci siamo. Credo però che oggi la battaglia per la “ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche” avviene soprattutto in forma di lotta per l’egemonia valutaria, e per l’attrazione di capitali e investimenti. Un esempio: sul Sole 24 ore del 18 settembre si leggeva che “fallimenti come quello di Lehman scoraggiano i fondi sovrani a investire in banche americane e li spingono verso l’Europa”; e che quindi l’Europa potrebbe trovare nella crisi “ragione di profitto, sia sul mercato Usa sia nelle relazioni globali”.
Secondo un editoriale di Massimo Gaggi sul Corriere della sera, la crisi delle banche spingerebbe la candidatura di McCain e sfavorirebbe Obama. Al di là della omogeneità dei due candidati su alcune questioni di fondo, pensi che il dissesto finanziario possa influire sulle elezioni presidenziali di novembre?
Certamente con le misure straordinarie assunte il governo Bush ha dimostrato se non altro di esistere. Questo potrebbe aiutare i repubblicani. Soprattutto perché Obama si guarda bene dall’affrontare la situazione con la radicalità necessaria. Perché significherebbe puntare il dito sui motivi strutturali della crisi e sulle politiche liberistiche di questi ultimi venti anni.