Kosovo: quei silenzi degli invasori “umanitari”

Ridotto al silenzio dall’evidenza della catastrofe anglo-americana in Iraq, il partito internazionale della guerra «umanitaria» dovrebbe essere chiamato a rispondere della sua crociata in Kosovo. Essa è stata il modello della «marcia di liberazione» di Tony Blair. Proprio come oggi l’Iraq, così è stata squassata la Jugoslavia, lo stato multietnico che nella guerra fredda fu l’unico a rifiutare entrambi i blocchi. Per preparare l’opinione pubblica all’aggressione illegale e non provocata, Clinton e Blair dissero bugie grandi come quelle di Bush e Blair sull’Iraq, col corredo di giustificazioni fraudolente fornite dai media nella primavera 1999. A dare l’avvio fu il segretario alla difesa William Cohen. «Abbiamo riscontrato l’assenza di 100.000 uomini [albanesi] dell’età idonea al servizio militare… potrebbero essere stati assassinati». David Scheffer, ambasciatore Usa per i crimini di guerra, annunciò: «225.000 uomini di etnia albanese dai 14 ai 59 anni» potrebbero essere stati uccisi. Blair evocò l’Olocausto e «lo spirito della seconda guerra mondiale». La stampa britannica seguì l’esempio. «Fuga dal genocidio» scrisse il Daily Mail. «Echi dell’Olocausto», il Sun e il Mirror. Nel giugno 1999, finiti i bombardamenti, le squadre investigative internazionali cominciarono a esaminare il Kosovo. L’Fbi denunciò «la più grande scena del crimine» nella storia dell’agenzia. Settimane dopo, non avendo trovato neanche una fossa comune, l’Fbi tornò a casa. Anche la squadra spagnola se ne andò e il suo capo protestò che lui e i suoi colleghi erano diventati parte di una «capriola semantica da parte delle macchine propagandistiche di guerra, perché non abbiamo trovato una – una sola – fossa comune».

Nel novembre 1999, il Wall Street Journal pubblicò i risultati di una sua inchiesta liquidando «l’ossessione delle fosse comuni». Invece dei «massacri che alcuni investigatori si erano aspettati… si osservano uccisioni sparpagliate [quasi sempre] in zone dove è stato attivo l’Esercito di liberazione del Kosovo». Il Journal concludeva che la Nato aveva avanzato le sue teorie sui massacri serbi quando «vide una stampa esausta avvicinarsi alla notizia opposta: civili uccisi dalle bombe della Nato». La guerra in Kosovo è stata «crudele, amara, selvaggia; non genocidio». Un anno dopo il Tribunale internazionale per i crimini di guerra, creato di fatto dalla Nato, ha annunciato che i cadaveri rinvenuti nelle «fosse comuni» del Kosovo erano 2.788, comprendendo i combattenti da entrambe le parti, i serbi e i rom uccisi dall’Esercito di liberazione del Kosovo. Come le armi di distruzione di massa in Iraq di cui si è tanto favoleggiato, le cifre usate dal governo Usa e da quello britannico, riprese dai media, erano invenzioni – insieme ai «campi di stupro» e alla tesi sostenuta da Clinton e Blair secondo cui la Nato non avrebbe mai bombardato i civili deliberatamente. Chiamati in codice «fase tre», i target civili della Nato comprendevano il trasporto pubblico, gli ospedali, le scuole, i musei, le chiese. «Era di pubblico dominio che la Nato era passata alla fase tre», disse James Bissell, ambasciatore canadese a Belgrado durante l’attacco, «altrimenti, non avrebbero bombardato i ponti di domenica pomeriggio e i mercati».

L’Esercito di liberazione del Kosovo era cliente della Nato. Pur indicato sette anni prima dal Dipartimento di Stato come organizzazione terrorista alleata di al-Qaeda, l’Uck fu accolto a braccia aperte: il segretario agli esteri Robin Cook permetteva che lo chiamassero sul suo telefono portatile. […]

La scintilla per il bombardamento della Jugoslavia, secondo la Nato, sarebbe stata la mancata firma serba alla conferenza di pace di Rambouillet. Passò quasi sotto silenzio il fatto che l’accordo di Rambouillet contenesse una Appendice B segreta, inserita dalla delegazione di Madeleine Albright all’ultimo momento. Prevedeva l’occupazione militare di tutta la Jugoslavia, un paese con tristi ricordi dell’occupazione nazista. […] L’Appendice B fu studiata per provocare il rifiuto. Mentre cadevano le prime bombe, il parlamento di Belgrado, comprendente alcuni dei più fieri oppositori di Milosevic, votò a stragrande maggioranza per rigettarla. Altrettanto rivelatore era il capitolo dedicato all’economia del Kosovo, che auspicava una «economia di libero mercato» e la privatizzazione di tutti i beni del governo. «La Jugoslavia – ha osservato lo scrittore balcanico Neil Clark – era l’ultima economia nell’Europa centro-meridionale non colonizzata dal capitale occidentale, con ancora prevalente la forma di autogestione dei lavoratori sperimentata da Tito: pubblici il petrolio, le miniere, il 75% dell’industria».

Nel 1999, al summit di Davos dei capitribù neo-liberal, Blair rimproverò Belgrado non per la sua gestione del Kosovo, ma per non avere abbracciato appieno la «riforma economica». Nella campagna di bombardamento che seguì, furono prese di mira le compagnie di stato, piuttosto che i siti militari. La distruzione da parte della Nato di soli 14 carri armati dell’esercito jugoslavo stride con i bombardamenti su 372 impianti industriali, tra cui la fabbrica automobilistica Zastava, che lasciarono senza lavoro centinaia di migliaia di persone. «Non fu bombardato neanche un sito straniero o appartenente a privati», ha scritto Clark.

Eretto sulle fondamenta di questa enorme bugia, il Kosovo oggi è un vilento «libero mercato» di droghe e prostituzione in mano alla criminalità, sotto amministrazione Onu. L’Uck ha sottoposto a pulizia etnica più di 200.000 serbi, rom, bosniaci, turchi, croati, ebrei, mentre le forze Nato stavano a guardare. Secondo l’Onu, gli squadroni dell’Uck hanno bruciato, saccheggiato o demolito 85 chiese ortodosse e monasteri. Anche se la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza riconosce il Kosovo come parte integrante della Jugoslavia, e non autorizza l’amministrazione Onu a svendere alcunché, le compagnie multinazionali si vedono offrire in leasing per 10 o 15 anni le industrie e le risorse della provincia, comprese le grandi miniere di Trepca, tra i più ricchi giacimenti al mondo. […]Su questa «democrazia futura» (Blair) depredata, assassina, e ora quasi etnicamente pura, vegliano 4.000 soldati americani a Camp Bondsteel, una base permanente di 775 acri. Nel frattempo procede come una farsa il processo a Milosevic procede come una farsa. […]Milosevic era un bruto; come banchiere, era anche considerato l’uomo dell’occidente pronto a implementare le «riforme economiche» in linea con le richieste del Fmi, della Banca mondiale e della Comunità europea. A sue spese, egli si è rifiutato di cedere la sovranità. L’impero non si aspetta niente di meno.

copyright pilger/il manifesto, traduzione marina impallomeni