Kosovo «indipendenza limitata», dal bastone alla carota

«Senza un pieno coinvolgimento europeo della Serbia, è possibile il rischio di un nuovo e pericoloso focolaio di instabilità» nei Balcani. L’allarme alla conferenza sui Balcani di ieri mattina alla Farnesina è del sottosegretario agli esteri Famiano Crucianelli, secondo il quale le elezioni in programma tra pochi giorni in Serbia, e soprattutto la definizione relativa al futuro status del Kosovo, sono uno «snodo di rilievo». Per Crucianelli la scelta del governo è di «non porre pregiudiziali verso questa o quella soluzione, quanto piuttosto di operare affinchè eventuali imposizioni della comunità internazionale o autorizzazioni implicite a “autodeterminarsi” non appaiano come l’epilogo asimmetrico del lavoro di questi anni». Chiaro il riferimento ai problemi che potrebbe comportare l’indipendenza del Kosovo, sostenuta da una parte della comunità internazionale. Crucianelli ha chiesto «certezze negli standard», ma non parlava degli standard democratici – rispetto delle minoranze, metodo non violento che in Kosovo non ci sono. La scelta sembra fatta, col fiato sul collo della Nato preoccupata, per ora, delle sole proteste albanesi. Dunque è sotto ricatto che la comunità internazionale si avvia a concedere una indipendenza etnica. Naturalmente, con «un rafforzamento della prospettiva europea per tutti». L’Europa incerta di sé, si fa miraggio.
«Mi auguro che dopo le elezioni in Serbia sia più forte di prima la coalizione democratica», ha affermato il ministro dell’interno, Giuliano Amato, aggiungendo di non credere «che sia possibile raggiungere una soluzione per il Kosovo senza il consenso serbo». «Non credo – ha aggiunto Amato – che il Kosovo riuscirà ad essere multietnico. Riuscirà ad essere monoetnico con forti enclave serbe protette». Il ministro dell’interno non crede al piccolo Kosovo Stato membro della Unione europea. «Entrambi (Serbia e Kosovo) devono capire che non possono essere completamente indipendenti. Il Kosovo è troppo piccolo per entrare in Europa». Paesi «di quella taglia ne abbiamo già, e ci bastano», ha perfino scherzato, invitando gli Stati dell’area ad associarsi sul modello del Benelux. Ma non c’era già la Jugoslavia federale – che ora tutti chiamano «Balcani occidentali» ha polemizzato l’ex ambasciatore Miodrag Lekic – che tutti, Europa compresa, hanno contribuito a devastare?
A 10 giorni dalla presentazione del rapporto sullo status finale del Kosovo da parte dell’inviato dell’Onu Martti Ahtisaari, il ministro degli esteri Massimo D’Alema – sette anni fa tra i leader della guerra «umanitaria» – ha osservato come sull’argomento ci si muove «tra diverse legittime esigenze che dobbiamo cercare di contemperare», da un lato «mettendo sul tavolo corposi incentivi per la Serbia», dall’altro «dicendo ai leader kosovari che l’indipendenza sarà con limitazioni» e che la provincia dovrà continuare a tenere conto di una presenza internazionale. «È evidente – apre D’Alema – che non c’è alcun realismo nella difesa serba della sovranità sul Kosovo, che non c’è più e in alcun modo potrebbe essere ristabilita. È un simulacro, una non realtà». Allo stesso tempo, «è difficile arrivare ad una soluzione che non sia concordata», osserva il ministro paventando un possibile veto in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu di qualcuno dei membri permanenti. Ieri Belgrado ha reso noto che Putin – preoccupato del «precedente» per il Caucaso – ha comunicato al premier Kostunica la volontà di «porre il veto russo» sulla risoluzione. E «il primo degli incentivi per il governo di Belgrado» potrebbe essere per D’Alema «la ripresa del negoziato per un Accordo di stabilizzazione e associazione, la cui finalizzazione sarebbe condizionata alla piena collaborazione con il Tribunale dell’Aja».
Tira una brutta aria. E ieri poi nessuno ha risposto alla domanda insistente: che fine hanno fatto migliaia di miliardi investiti dalla cooperazione internazionale in Kosovo?