Lunedì scorso il mediatore dell’Onu Martti Ahtisaari è tornato a Vienna per annunciare che le trattative sullo status finale del Kosovo erano fallite. Era annunciato, fin dal momento in cui gli era stata affidata la «mediazione» – strana, per uno che è a favore dell’indipendenza. L’Occidente non ha deflettuto, riproponendosi nel ruolo nefasto di chi ha partecipato alla guerra balcanica con le concessioni delle indipendenze proclamate su base etnica – Slovenia e Croazia – già nel 1991. E ora si avvia a confermare una nuova indipendenza monoetnica, quella albanese del Kosovo. A un bel dire ora il governo italiano, che bisogna «uscire dagli schemi» per insistere sul compromesso e non imporre l’indipendenza alla Serbia. I giochi, pericolosi, sembrano fatti. Tutto ormai è finito nel grande calderone internazionale che vede protagonista la Russia di Putin, gli Stati uniti di George W. Bush eredi della guerra «democratica» e spesso bipartisan, l’Ue che da tempo ha affidato alla Nato la sua politica estera.
Nessuno che si chieda quale sia stato alla fine il risultato della guerra «umanitaria» di 78 giorni di bombardamenti aerei, l’ambigua uscita della missione Osce dal territorio del Kosovo (dove mediava tra esercito di Belgrado e Uck) per colpa della messainscena della strage di Racak, la truffa dei diktat di Rambouillet. Milosevic non c’è più, ma alla Serbia è stata proposta solo e soltanto l’indipendenza di una parte del suo territorio. Suo anche secondo gli accordi di pace di Kumanovo e la risoluzione 1244 dell’Onu. Rivelando che la guerra della Nato, giustificata per scopi umanitari, aveva in realtà l’obiettivo di una secessione etnica. Un bel precedente, per l’incerta Bosnia Erzegovina, per la crisi in Macedonia, per le «altre indipendenze» nel Caucaso, in Europa e nel mondo.
I monasteri ortodossi aprono ai diritti degli albanesi, confermando il diritto dei serbi al Kosovo. Con una maggiore disponibilità della Chiesa ortodossa che lì vive sotto la pressione albanese, e che parla ai democratici e ai moderati nazionalisti in Serbia; mentre un’altra parte più dura del Patriarcato respinge le rivendicazioni di Pristina. Vojslav Kostunica e il presidente Boris Tadic, che rappresentano la stabilità serba, mandano a dire che non ci saranno concessioni sulla sovranità. Tadic aggiunge che anche se la situazione precipiterà, non muoverà l’esercito. Ma tutto è possibile, perché a Belgrado ancora è in ballo il nodo del governo e il primo partito alle elezioni è stato quello ultranazionalista.
Il disastro vero è quello della leadership kosovaro-albanese. La Lega democratica che fu di Ibrahim Rugova è in frantumi; l’ex leader dell’Uck, Hasim Thaqi appare fuori scena; al premier Agim Ceku hanno arrestato per traffico di valuta il suo principale consigliere; è fallita l’alternativa dell’Alleanza di Ramush Haradinaj che, prima di morire, Ibrahim Rugova aveva nomimato premier, nelle stesse ore in cui veniva accusato all’Aja per crimini contro l’umanità. Al nuovo processo, il procuratore Carla Del Ponte lo ha chiamato «gangster in divisa» ricordando i 37 capi d’imputazione che pendono contro di lui – la sua immagine in uniforme «all’eroe della patria Ramush Haradinaj» pende sempre su un grande telone nella piazza di Decani. Regnano i clan in Kosovo, della droga e dei trafici di armi e ricchi aiuti internazionali. Purtuttavia chiedono l’indipendenza. E ricattano con la violenza di un movimento eterodiretto che chiede tutto e subito. I serbi dicono no.
All’ultima conferenza alla Farnesina il ministro degli esteri Massimo D’Alema aveva intimato a Belgrado: «Vi attaccate al passato, il Kosovo è solo un simulacro». Vagli a spiegare ai serbi ortodossi che considerano il Kosovo come la loro Gerusalemme, la culla della loro storia – e, visti i monumenti, anche della nostra – della quale è stato fatto scempio in questi sette anni di protettorato Nato, che «invece» è un simulacro.