Ecco un altro che non riesce a fare il proprio mestiere e straparla facendo comizi. E’ il ministro degli esteri Gianfranco Fini che ieri, a conclusione della sua missione nei Balcani, non ha pensato di meglio che attaccare il movimento della pace. «I costruttori di pace siete voi, non quelli che vanno in giro con le bandiere arcobaleno. Tra chi costruisce la pace e i pacifisti c’è la stessa differenza che tra una fotografia e una caricatura». Così il ministro – o la sua caricatura? – ha parlato al contingente italiano del Villaggio Italia, la base militare presso Pec e, non contento, ha concluso: «Gli italiani per la loro storia non saranno mai percepiti come truppe d’occupazione ma di liberazione dalla guerra civile, dalla miseria e dalla povertà». Un comizio in piena regola. Perché, se avesse chiesto al Villaggio Italia di poter uscire un attimo soltanto e fare duecento metri, all’ombra della base avrebbe scorto nell’ex frazione serba di Belo Polje i capifamiglia asserragliati a vegliare non tanto sulle macerie delle case distrutte ma sulle lapidi del cimitero ortodosso disseppellite e spaccate. Tutto incendiato e devastato a marzo del 2004 durante i pogrom antiserbi. Ma in Kosovo in questi 5 anni e mezzo di occupazione della Nato e di amministrazione dell’Unmik-Onu, è sempre stato «marzo»: sono 1300 i serbi, rom e albanesi moderati asssassinati, altrettanto quelli desaparecidos, ben 150 i monasteri ortodossi rasi al suolo e incendiati, 200.000 i serbi e altrettanti i rom fuggiti nel terrore.
Tutto sotto gli occhi «vigili» dei militari dell’Alleanza atlantica, compresi i nostri. E’ vero e non sarà mai apprezzato abbastanza l’attuale ruolo dei militari italiani: senza di loro i pochi serbi rimasti sarebbero assassinati, loro e i monaci del vicino monastero di Decani. Ma come non riflettere sul fatto che proprio i soldati italiani – basta parlarci – hanno scoperto una versione capovolta a quella che a loro era stata raccontata: perché hanno dovuto proteggere i kosovari serbi, «nemici», dalla violenza sanguinaria degli «alleati» kosovari albanesi. Senza dimenticare che i nostri sminatori mettono a repentaglio la loro vita ogni giorno disinnescando le cluster bomb che i nostri F-16 hnno lasciato cadere «umanitariamente» sulle città dell’ex Jugoslavia, Kosovo compreso, rimanendo spesso appese sugli alberi. Sì, quella guerra della Nato nel 1999, 78 giorni di bombardamenti che il centrosinistra di governo chiamava «umanitari», non ha portato la pace ma una condizione di nuova instabilità nell’area e una ulteriore pulizia etnica della quale stavolta siamo stati testimoni conniventi.
A meno che Fini non sia andato nei Balcani per un improbabile scambio politico: memore del disastro della guerra irachena, rivendica ora la giustezza della guerra «buona» del governo di centrosinistra e della Nato.
Ma ora si trova in più il nuovo stallo sullo status definitivo del Kosovo, dopo che negli accordi di pace del giugno 1999 la comunità internazionale accettò, anche nella risoluzione Onu 1244, che quella regione rimanesse ancora sotto la sovranità di Belgrado: solo per questo i serbi accettarono quegli accordi di pace. Ora il nostro ministro degli esteri – o la sua caricatura – si aggira per i Balcani. ma non per accorgersi della tragedia che la guerra ha alimentato. Per fare propaganda elettorale contro i pacifisti. Portando a casa però poco più di una grande buco nell’acqua. Il suggello della sua visita infatti avrebbe dovuto l’incontro con il «presidente» – eleto in elezioni monoetniche – Ibrahim Rugova. Che stava così male (è praticamente in fin di vita, ma Fini lo ignorava) che non lo ha potuto ricevere. A Fini è rimasta allora la consolazione di «credere» che, anche senza di lui, «il padre della patria», la leadership albanese sia almeno consapevole «della necessità di rispettare gli impegni internazionali e condannare qualsiasi scorciatoia di violenza». Sembrava voler dire «speriamo almeno che sia così». Ma è un’amara speranza. Visto che la leadership kosovaro-albanese è fatta di estremisti come Hasim Thaqi che ha forzato pochi giorni fa l’appprovazione da parte del parlamento di Pristina di una mozione per l’«indipendenza ad ogni costo» e contro il parere dell’Unione europea, e da «leader» come l’ex premier in pectore, Ramush Haradinaj, imprigionato all’Aja per stragi contro civili rom e serbi.
Allora al ministro degli esteri italiano – e questa onestà gli va riconosciuta – ha dovuto ricordare forte e chiaro che l’indipendenza del Kosovo «non è stata già decisa», perché le autorità di Pristina non hanno ancora garantito gli standard di rispetto delle minoranze per salvaguardare il carattere multietnico del Kosovo. Standard che restano inesistenti e «lontani», ha ribadito pochi giorni fa Marek Novicky, alto rappresentante dei diritti umani in Kosovo per la comunità internazionale. Né, francamente, può sembrare un risultato quello di avere ottenuto a Tirana la promessa: «Noi garantiremo i diritti della minoranza serba». Sapete chi l’ha detto? Sali Berisha, il «nuovo» presidente della repubblica dell’Albania. A quale titolo non si capisce. E comunque, stiamo freschi.
Quanto ai soldati italiani che sarebbero percepiti «per la loro storia non come truppe occupanti», perché Fini non riflette sul fatto che proprio nei Balcani le truppe italiane (e i nazifascisti), ben prima – ripetiamo, prima – delle famigerate foibe da lui così artificialmente enfatizzate, hanno perpetrato come truppe occupanti tanti crimini davvero indimenticabili, non solo da quelle parti?