Koizumi alla fine perde la Posta

La Camera Alta del parlamento boccia la privatizzazione delle poste che trasformava l’ente nella struttura bancaria più grande del mondo. Il premier incassa la sconfitta e i voti contro dei clan del suo partito e, con i poteri che gli conferisce la Costituzione, convoca nuove elezioni. Per l’11 settembre
PIO D’EMILIA
Diavolo di un Koizumi. «Il parlamento ha deciso? Bene, allora sentiamo il popolo». Detto fatto. Nel giro di poche ore – ma forse il percorso era già tutto deciso da qualche giorno – il premier più longevo, arrogante e popolare del Giappone ha incassato la prevista ma non per questo meno umiliante sfiducia di un ramo (politicamente ininfluente) del Parlamento, ha rispedito al mittente (i «signori delle tessere» del suo partito) la minaccia, mantenuta, di impallinarlo e, approfittando dei poteri che gli conferisce la Costituzione, e alla fine ha convocato nuove elezioni. Decidendo anche una, «incredibile», data: l’11 settembre. Sì, proprio l’11 settembre. Passerà anche questa alla storia? Cesserà, dopo aver regnato pressoché incostratastato dal dopoguerra (solo una breve parentesi, nel 1993, durata dieci mesi), l’impero liberaldemocratico?

E anche la borsa recupera

Difficile prevederlo in queste ore. Lo sgambetto era nell’aria. Tant’è che ieri, dopo che la Camera Alta ha bocciato la riforma delle poste – cavallo di battaglia di Koizumi sin da quando salì al potere, nel 2001 – con 125 voti contro 108 (cinquanta in più di quelli previsti), sia lo yen che la borsa hanno recuperato le perdite registrate venerdì scorso.

Nessuna sorpresa dunque, e forse fa male Tatsuya Okada, giovane e serio leader del partito democratico, a cantar vittoria. «Meglio così, vorrà dire che andremo al potere con un anno di anticipo». Che il partito democratico di Okada e Naoto Kan, l’uomo che nel 1998 aveva tentato di importare l’Ulivo in Giappone, abbia serie possibilità di vincere le prossime elezioni e dunque di conquistare il potere sono in molti a prevederlo e, almeno pubblicamente, ad auspicarlo. Perfino la Confindustria. Ieri Hiroshi Okuda, presidente della Keidanren (appunto, la Confindustria giapponese) e della Toyota, ha criticato il premierKoizumi per avere voluto forzare la mano e ha invitato gli imprenditori a «valutare con serenità i programmi di tutti i partiti, votando senza pregiudizi e paure».

Non c’è male, come viatico, per un partito, quello democratico, che fino a due anni fa veniva definito, dalla stessa persona, «un inestricabile groviglio di idee e di persone».

A favore del partito democratico gioca, stavolta, il sistema elettorale. In Giappone si vota con il maggioritario uninominale, con una quota di proporzionale, come in Italia. Nonostante, almeno per il momento, non vi siano in vista accordi di collaborazione elettorale (una desistenza, anche localizzata, con i comunisti garantirebbe la vittoria), il partito democratico potrebbe ricevere, nei prossimi giorni, molti transfughi del partito di maggioranza. Tutti quelli (una trentina, almeno) che, avendo votato contro la riforma di Koizumi, «si sono dichiarati fuori» e non verranno ricandidati. Almeno, questo è quanto ha dichiarato da mesi il premier, ed è abbastanza probabile che manterrà, costi quel che costi, questa minaccia.

I tempi del premier Nakasone

Un tempo la «scomunica» era a tempo. Dissenzienti, franchi tiratori (e indagati costretti alle dimissioni) non venivano candidati ufficialmente, ma, spesso trattandosi di personaggi potenti, si candidavano come indipendenti e, una volta rieletti, venivano riaccolti nel partito. Capitò, negli anni Ottanta, al premier Nakasone. Costretto a dimettersi per una questione di bustarelle, si ricandidò nel suo collegio blindato e, dopo essere stato trionfalmente rieletto, chiese e pretese di rientrare nel partito: «Il voto mi ha purificato».

Una tecnica che stavolta non dovrebbe funzionare. Koizumi ha ribadito più volte che i «traditori» non verranno perdonati. «Che si candidino con altri partiti. Per loro, qui, non c’è più posto». Staremo a vedere. Difficile immaginare personaggi come l’attuale speaker della Camera, Yohei Kono, o il segretario generale Shizuka Kamei bussare alla porta dell’opposizione. Ma è difficile anche immaginarne il ritiro in un tempio. «Il popolo decide chi mandare al governo – ha dichiarato ieri sera Kamei – ma è il partito a decidere chi deve guidarlo».

Un probabile compromesso

In altre parole, sarà Koizumi, la cui popolarità sembra essere comunque ancora alta, a guidare il partito durante la difficile campagna elettorale. Ma non è detto che, in caso di inaspettata vittoria, il partito lo lascerà governare per altri quattro anni. E il compromesso che, aldilà delle forme che ha assunto il dibattito esterno, potrebbe delinearsi è proprio questo. Koizumi, giocando d’anticipo, garantisce al partito la continuità di potere ed il partito, dopo avergliela fatta sudare, approva finalmente la sua riforma. Ma poi gli dà il benservito.

Già, la riforma. Nessuno ne parla più. Se fosse passata, il Giappone avrebbe «privatizzato», nel giro di pochi anni (il progetto prevedeva varie fasi, con la completa privatizzazione prevista per il 2017) di qualcosa come tremila miliardi di dollari. Le poste giapponesi, che già oggi sono il primo «padrone» del paese (con 400 mila dipendenti e 24 mila uffici, il doppio degli sportelli bancari) sarebbero divenute la prima banca del mondo, con le conseguenze «sovversive» facilmente immaginabili, sia in patria che all’estero, per il potere finanziario.

Un vero attentato alla globalizzazione, come ha scritto giorni fa sull’autorevole Nikkei, il quotidiano finanziario, l’analista Atsuki Nakajima.

«Il deficit pubblico giapponese si finanzia grazie ai depositi postali. Se anche solo un parte di questi soldi venissero affidati al libero mercato finanziario, lo stato comincerebbe a boccheggiare». E la piccola, ma reale e costante ripresa – la crescita, quest’anno, dovrebbe essere del 2% – rischierebbe di bloccarsi di nuovo.