Eletto a furor di popolo, il presidente Bakiyev rompe il tabù della presenza americana: «Paese stabile, non abbiamo bisogno di loro»
Le elezioni presidenziali in Kirghizistan hanno visto il netto successo, anzi il trionfo, dell’ex-leader dell’opposizione Kurmbanbek Bakiyev, ma hanno anche smentito clamorosamente le previsioni e le illazioni che andavano per la maggiore sui mass-media occidentali, a cominciare da quelli di casa nostra. Si parlava di una possibile (e temuta) bassissima affluenza, ed è andato a votare il 78% degli aventi diritto; si prospettava il rischio di gravi incidenti é sull’esempio dei disordini del marzo scorso – e tutto si è svolto nella calma più assoluta e in piena regolarità, come hanno attestato gli osservatori stranieri; si guardava alle elezioni come l’onda lunga della “crociata per la democrazia” di Bush e il neo-eletto nella sua prima dichiarazione pubblica ha parlato chiaramente di ritiro delle truppe americane presenti nel Paese dal 2001. Piazza pulita insomma di tutte le sciocchezze dette e scritte a proposito di una “rivoluzione dei tulipani” che si è voluta assimilare a tutti i costi ai rivolgimenti filo-americani di Georgia e Ucraina e che invece aveva caratteristiche e prospettive diverse; il che dovrebbe insegnare una volta per tutte a non applicare meccanicamente le etichette e le ricette che vengono da Oltreoceano. La vittoria di Bakiyev – che da marzo esercitava già le funzioni di presidente provvisorio – è apparsa chiara fin dalle prime fasi dello scrutinio ed è stata comunque confermata ufficialmente nel pomeriggio a Bishkek, la capitale kirghisa, dalla commissione elettorale centrale; lo scrutinio non era ancora ultimato, ma con oltre il 70% delle schede scrutinate Bakiyev viaggiava intorno all’88% per cento dei voti, una percentuale degna dell’era sovietica (della quale del resto Bakiyev è figlio, al pari del presidente deposto a marzo Askar Akayev). Il successo era peraltro scontato dopo la rinuncia del principale concorrente di Bakiyev, il generale Kulov, che ha di fatto ritirato la sua candidatura ottenendo in cambio la nomina a primo ministro con la promessa di ampliare rapidamente per legge i poteri previsti dalla costituzione in vigore. L’andamento delle elezioni non è stato tuttavia sorprendente se si considera che fra le cinque repubbliche dell’Asia centrale di Kirghizistan era quella che aveva conosciuto nei primi anni dell’era post-sovietica un nitido ma innegabile processo di transizione democratica. Akayev – che era l’unico fra i leader centro-asiatici a non essere stato segretario del Pcus locale – aveva varato riforme economiche reali o aveva lasciato spazio alla società civile con una relativa libertà di stampa e il riconoscimento di partiti e movimenti di opposizione; il processo di involuzione che ha portato poi alla crisi del marzo scorso era cominciato nel 2000, dopo che Akayev era stato confermato presidente con il 74% dei voti ma con accuse di brogli e irregolarità e soprattutto in concomitanza con una crisi economica che aveva colpito la popolazione ma non la famiglia del presidente e che ha portato ben 700mila kirghizi a emigrare in cerca di lavoro, su una popolazione di appena 5 milioni di abitanti. Come si è accennato, non erano ancora stati proclamati i risultati definitivi che già Bakiyev pronunciava dichiarazioni destinate a fare scalpore. «Possiamo cominciare a domandarci – ha detto in una conferenza stampa – se sia ancora opportuno il dispiegamento di forze militari degli Stati Uniti in Kirghizistan». Parole che hanno suonato certamente come musica alle orecchie di Putin, che si sente per così dire accerchiato dalla “crociata per la democrazia” di Bush; tanto più che la Russia ha una base militare nel Paese e già si parla della possibilità di aprirne una seconda. Nel 2001, alla vigilia della guerra contro i Talebani, l’allora presidente Akayev aveva concesso agli Usa l’utilizzo di una base militare a ridosso della frontiera con l’Afghanistan; contemporaneamente Washington aveva ottenuto l’uso di una base aerea in Uzbekistan e il permesso di sorvolo del Kazakistan, e da allora ha sempre mostrato di non aveva alcuna intenzione di rinunciare a tali concessioni. Ma adesso il neo-eletto Bakiyev ha formalmente riaperto il problema. La situazione ha detto, «adesso è cambiata: si sono tenute elezioni parlamentari e presidenziali, il Paese si è stabilizzato, e pertanto è possibile procedere, e subito, a riesaminare l’utilità della presenza di forze americane in Kirghizistan». Bakiyev ha anche ricordato che del problema si è parlato in occasione del recente vertice della Organizzazione per la cooperazione si Shangai, della quale fanno parte la Russia, la Cina e quattro repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale, e precisamente – oltre al Kirghizistan – il Kazakhstan, l’Uzbekistan e il Tagikistan (restandone fuori solo il Turkmenistan). Un problema di più per Bush, dopo i guai che sta passando in Iraq e la recente elezione di Ahmadinejad in Iran; la sua strategia nella regione del Golfo e dell’Asia centrale, volta a impedire il ritorno della Russia e la crescita della Cina al ruolo di superpotenze alternative agli Usa, incontra così nuovi ostacoli. Si era parlato nel marzo scorso, al tempo della crisi kirghisa, e poi in occasione dei disordini in Uzbekistan di un ritorno di quel “grande gioco” che a cavallo fra il XIX e il XX secolo aveva visto impegnati in quell’area gli Imperi russo e britannico e che sembrava tornare di attualità con un cambiamento di attori (gli Usa al posto della Gran Bretagna) e su una scala più vasta; se quel “gioco” era una sorta di partita a scacchi su scala continentale, si può dire che oggi con una “mossa del cavallo” Bakieyev sta mettendo in difficoltà il “Re bianco”. La partita tuttavia è ancora in pieno svolgimento, anzi in un certo senso è appena iniziata.