Oggi l’Assemblea nazionale francese approverà l’abbassamento dell’età della responsabilità legale dai 13 ai 10 anni, dalla prima adolescenza all’infanzia. La causa scatenante è il diffondersi della violenza nelle scuole, ai cui ingressi hanno fatto la loro comparsa i metal detector, proprio come nelle scuole statunitensi: a controprova che – a dispetto di tutta l’enfasi sull’eccezione francese, sulla differenza francese – la Francia è oggi il paese dell’Europa continentale a più rapida americanizzazione. Abbassando l’età della responsabilità legale all’infanzia, Parigi compie un passo indietro di secoli, torna a prima della rivoluzione francese e, per rispondere a un “imbarbarirsi” della vita sociale, ricorre a un ancor più selvaggio imbarbarimento del sistema legale. Però la Francia non è sola in questa tendenza ed è molto probabile che i fautori nostrani della “tolleranza zero” cercheranno d’imitarla.
Ma una misura simile è già stata adottata all’altro capo del mondo, in una società la cui lontananza culturale ci permette di cogliere meglio fattori e tendenze che l’eccessiva familiarità del paesaggio europeo ci nasconde. Dall’inizio di quest’anno infatti l’età della responsabilità legale è stata abbassata in Giappone dai 16 ai 14 anni. Questa decisione è stata presa dopo un’ondata di delitti commessi da adolescenti e cavalcati dalla stampa che ha lanciato una furibonda campagna di criminalizzazione di tutta una fascia della gioventù nipponica. L’allarme della stampa è pompato e ingiustificato visto che in Giappone è di gran lunga inferiore a quello di tutti gli altri paesi industrializzati il tasso di “criminalità giovanile” – per quanto quest’espressione possa avere un senso: “Chi ha mai parlato infatti di criminalità senile?” mi chiedeva un giudice belga una volta. Nel 1999 gli adolescenti nipponici (tra i 14 e i 19 anni) accusati di omicidio sono raddoppiati e sono 117; nel primo semestre del 2000 un migliaio di giovani sono stati arrestati per omicidio, stupro, violenza o incendio criminale (+ 2% rispetto al primo semestre 1999). Gli adolescenti rinchiusi in riformatorio sono raddoppiati negli ultimi cinque anni passando da 3.800 a 5.600 nel 1999. Rispetto agli standard europei sono cifre irrisorie. E rispetto agli Stati uniti sembra un paradiso di pace.
Ciò non toglie che la sequenza di omicidi clamorosi è davvero macabra. E’ iniziata nel 1997 a Kobe quando un liceale tagliò la testa a un suo compagno di classe e la espose sulla porta del liceo. Nel dicembre 1999 un giovane tagliava la gola a un bambino di cinque anni che giocava in un giardino pubblico; nel marzo 2000, nella città dormitorio di Fukuoka due ragazzi di 13 e 14 anni uccisero la madre ubriaca che non era andata a cercare la figlia ospitata in un centro d’accoglienza; nel maggio un adolescente dirottò un camion e uccise a coltellate una vecchia presa in ostaggio; qualche giorno dopo un altro infliggeva 40 coltellate a una signora anziana. Il mese dopo un altro uccideva sua madre e feriva due compagni con una mazza da baseball. In agosto un liceale di 16 anni uccideva nel sonno tre membri della sua famiglia con un coltello da caccia perché loro l’avevano accusato di guardarli mentre erano in bagno.
Tutti questi episodi sono riportati da uno dei migliori corrispondenti europei in Giappone, Philippe Pons, che ha pubblicato su Le monde una serie in quattro puntate (10-13 aprile) sul tema “Avere vent’anni in Giappone”. “Mi odiavo e, uccidendo qualcuno, avanzavo verso la mia propria distruzione”, ha dichiarato al tribunale un adolescente accusato di avere ucciso una donna a Ojya (prefettura di Niigata). Non può non venire in mente il romanzo Oro rapace (1998) dell’oriunda coreana Yu Muri. Uscito in Italia lo scorso gennaio (Feltrinelli), il romanzo racconta la discesa all’inferno di Kazaki, un giovane agiato, figlio di un proprietario di una catena di pachinko (sale di slot-machines), con una sorella che si prostituisce per il gusto di farlo. Kazaki finisce con l’uccidere il padre senza rimorso, quasi con naturalezza, in esplosioni di rabbia irrefrenabile contro il mondo. Per queste deflagrazioni caratteriali i giovani giapponesi usano “kireru”, un’espressione – riferisce Pons – che letteralmente vuol dire “tagliare la corda al sacco della sopportazione”. Il Giappone ha conosciuto in anticipo le sue Erika il suoi Omar (la giovane adolescente di Novi Ligure che con il suo ragazzo pare aver ucciso a febbraio la madre e il fratellino).
Una rabbia gelida e infuocata, una “fusione fredda” psicologica, caratterizza almeno una fascia dei giovani giapponesi dell’ultimo decennio, così diversi non solo dai giovani sessantottini di Tokyo Blues Norvegian Wood (1987) di Haruki Murakami, ma anche dal giovane Hitoshi della generazione degli anni ’80, in Kitchen (1988) di Banana Yoshimoto o dai due tenerissimi teen-ager nipponici – così spiritualmente indifesi – che vagano per le notti di Memphis, paragonando la patria di Elvis Presley alla loro città di origine, Yokohama, nell’episodio appunto “Lontano da Yokohama” del film Mistery Train (1989) di Jim Jarmusch.
Cominciava ad affacciarsi sulla scena la giovane generazione che era cresciuta con la “bolla” (con la grande ondata speculativa della seconda metà degli anni ’80, l’equivalente nipponico del craxismo), con le nuove bande della notte, con i motociclisti e i giovani manovali della Yakuza.
Il cambiamento di clima si è cominciato ad avvertire nel 1995 con un libro a metà fiction del mezzo sangue Karl Taro Greenfeld Speed Tribes. Days and Nights with Japanese Next Generation, a metà tra il racconto e il saggio, con le storie dei raduni notturni, degli scontri con la polizia, dei rapporti gerarchici tra i giovani, dei brevi amori. Come dice il nome, l’autore è un ebreo nippo-americano, un coktail insolito. In quegli anni si diffondeva un fenomeno – impensabile se il Giappone fosse ancora quel disciplinato alveare che la pubblicistica ci descriveva (il cosiddetto “modello giapponese”) – e cioè la prostituzione studentesca chiamata a Tokyo “Enjo Kosai”, che potrebbe essere tradotto con “sostegno finanziario alla socializzazione” (“e perché non chiamarla ‘borsa di studio’?”, ironizzava il quotidiano francese Libération).
L’argomento è trattato in un film di Ryosuke Hashiguchi, Hatachi no binetsu, che è del 1993, ma che ha circolato solo nel 1999 sugli schermi francesi con il titolo Febbretta dei vent’anni: è il primo film di questo regista che ha oggi 41 anni, e che è diventato famoso in Europa nel 1997 con il suo secondo film: Grani di sabbia. Febbretta dei vent’anni racconta la storia di Tatsuro, un giovane studente eterosessuale – silenzioso, indeciso, indifferente – che si prostituisce con uomini maturi e che, invitato a pranzo per essere presentato ufficialmente alla famiglia della sua ragazza, finisce per riconoscerne nel padre un suo cliente. E’ quella gioventù che ritrovi in un altro film “giapponese” girato dal francese Jean-Pierre Limousin, Tkyo Eyes (1999), con la giovane Hinanu che cerca di risolvere un caso di omicidio.
Il fatto è che attorno al 1995 la “Bolla” stava già cominciando a scoppiare, finché nel 1997 gli Stati uniti e il Fondo monetario scatenarono l’offensiva finanziaria che provocò la grande crisi asiatica, mise in ginocchio le cosiddette “tigri” (Indonesia, Malesia, Thailandia, Corea del Sud) e affibbiò alla potenza economica giapponese una mazzata da lasciarla stramazzata. Da allora è apparsa la disoccupazione, grandi banche sono fallite, è finita la protezione sociale a vita assicurata dagli zaibatsu, i conglomerati che dominano tutta l’economia dell’arcipelago. Gli stessi zaibatsu, che erano riusciti a sopravvivere alla sconfitta della seconda guerra mondiale, sono ora in crisi tanto da dover mettere in vendita i propri gioielli.
Dal 1997 a oggi si è diffuso il part-time (“arubaito”) e, con esso, il precariato. E’ tutta l’etica del lavoro che sta venendo meno, a partire dalla scuola, dove l’assenteismo sta crescendo a un ritmo inusitato (nel 2000 hanno rifiutato di seguire i corsi più di 140.000 liceali). Poiché il posto garantito a vita è stato spazzato via dalla crisi, con esso è crollato tutto il modello d’integrazione giapponese e si diffonde l’ideologia “furita”, un neologismo – riferisce Pons – derivato dall’inglese free e dal tedesco Arbeit, cioè il nomadismo lavorativo, una scelta di vita edonistica, un anticonformismo (marchiato dal conformismo di branco) che si esprime negli ambiti più disparati, dal modo di vestirsi e gestire il corpo, con la moda delle amazonesu (le amazzoni), fino a preferire i viaggi in Asia da soli piuttosto che in Europa in gregge (i mitici turisti giapponesi).
La stessa struttura familiare si sta disintegrando: sempre più spesso le nuore rifiutano di prendersi cura dei vecchi suoceri e di vivere sotto lo stesso tetto (ponendo così una bomba sotto l’edificio della sicurezza sociale): nel 1972 l’80% degli anziani e delle coppie sopra i 65 anni non viveva da sé, ma presso i figli. Oggi questa percentuale si è ridotta al 54%. I nuclei in cui convivono sotto lo stesso tetto tre generazioni (nonni-figli-nipoti) erano il 55,8%ora sono il 29,7 (dati del New York Times).
Quella che il Giappone sta vivendo è una vera e propria rivoluzione culturale e sociale. Che questa rivoluzione sia scoppiata non stupisce, tutt’al più meraviglia che sia divampata così tardi: alla fine della seconda guerra mondiale, per quanto dotato di un buon settore industriale, il Giappone era ancora una società tradizionale. Nei 50 anni successivi è stato martellato culturalmente e colonizzato dagli Stati uniti. Eppure, grazie all’ininterrotta crescita economica, era riuscito a mantenere quella sua peculiare fisionomia sociale, a metà tra un capitalismo zen e un feudalesimo tecnologico. Ma lo scoppio della Bolla ha mandato in macerie quello che sembrava un ordine saldo ed era invece un precario castello di carte. Così che oggi i giovani nipponici sono stranieri nel proprio paese, più familiakri a una cultura estranea che alla propria, educati a una struttura sociale disintegrata.
Non che in Italia le cose siano andate diversamente. Anche da noi la fine della guerra fredda ha significato la fine del privilegio concesso dagli Stati uniti all’Italia in quanto paese di frontiera geografica (di fronte ai Balcani) e politica (per il forte partito comunista), ha disintegrato la Dc, ha messo in crisi il “compromesso brezneviano” che vigeva nella nostra amministrazione pubblica (ti pago poco, ma hai il posto a vita e sei libero di arrotondare con bustarelle). Nel decennio degli anni 1990 la struttura sociale italiana ha subito uno sconvolgimento probabilmente paragonabile a quello giapponese. E la gioventù italica che ne è uscita è altrettanto straniera in patria di quella nipponica. E’ una gioventù ignota agli uomini politici, in particolare a quelli di sinistra per cui le pratiche sociali e culturali degli italiani sotto i 30 anni sono familiari quanto quelle degli Ufo. La differenza è che lo sconvolgimento giapponese è stato studiato analizzato, raccontato in romanzi, saggi, film: l’Arcipelago del Sol Levante è quanto di più distante da noi possa esserci in una società ricca e tecnologicamente avanzata: esso perciò costituisce l’oggetto d’eccezione per uno sguardo antropologico sulla modernità, anche con tutte le banalità che un tale sguardo a volte comporta. Niente di tutto questo in Italia. Basti dire che il massimo che ci si può aspettare da noi è un lapalissiano instant book di Paolo Crepet (i giovani sono infelici perché non sono felici) o un sociologismo d’accatto a ogni Erica, a ogni Omar. In attesa del metal detector.