They won’t make it, per dirla in omaggio alla lingua Usa. Ossia: non ce la faranno. Questo è il mio pronostico riguardo i tentativi di rilancio dell’economia Usa. Resta da determinare l’entità della recessione che a sua volta contiene veri e propri elementi depressivi. Certo vale sempre una massima di Keynes secondo cui in economia, che solo nella fantasia degli scientisti è governata da leggi di movimento di lungo periodo, ad accadere è l’imprevisto piuttosto che l’inevitabile.
Cominciamo da una notizia che dovrebbe dare speranza e che confermerebbe il ritorno ad un keynesismo militare. Il governo Usa ha assegnato alla Lockeed un contratto di 200 miliardi di dollari (circa 430 mila miliardi di lire) per produrre 3.000 aerei da guerra nei prossimi vent’anni. Su quest’arco di tempo gli effetti occupazionali diretti ed indiretti sono calcolati intorno alle 35mila unità negli Usa ed intorno alle 10mila in Gran Bretagna. E’ la seconda volta che nel corso dell’anno la società ottiene commesse dal governo di Washington. A marzo ricevette, senza appalto pubblico, un mega contratto per il rinnovo di tutto il sistema di navigazione aerea dei cieli Usa, un’area che si estende dall’Atlantico all’Alaska, alle isole Marianne nel Pacifico orientale. Il fatto che il segretario ai trasporti Norman Maneta sia stato vicepresidente della Lockeed ovviamente non c’entra affatto, per cui Marx aveva torto marcio a dire che il governo è il comitato d’affari della borghesia o del capitale.
Il contratto per la produzione dei 3.000 aerei, assegnato in base al principio secondo il quale “il vincitore piglia tutto”, ha demoralizzato la Boeing che si appresta a licenziare 30mila dipendenti senza calcolare gli effetti negativi indiretti. Eppure anche con la Boering l’amministrazione Usa era stata generosa: a marzo, aveva ottenuto che il governo Usa imponesse alle proprie agenzie l’uso di un suo aereo da trasporto per i colli postali nonchè sussidi governativi per i trasportatori privati che decidessero di acquistare il velivolo. Malgrado ciò la Boeing – che alcuni anni fa ha assorbito la Douglas rilevandone gli impianti – vive la perdita del contratto dei 3000 aerei come un colpo durissimo.
Tra la Lockeed e la Boeing, nel migliore dei casi i risultati in termini occupazionali si annullano. Inoltre se una società gongola e l’altra si dispera le aspettative complessive non si muovono nel senso positivo voluto dal keynesismo militare, anche ammettendo che una parte del piagnisteo della Boeing sia una messa in scena per ottenere dei soldi dal governo.
Nell’industria aeronautica Usa i profitti principali provengono dalle commesse militari e con la crisi dell’aviazione civile queste diventano vitali. Vale la pena ricordare che durante la guerra del Vietnam tutte le società andavano, chi più chi meno, bene in termini di capacità produttive utilizzate. Allora gli Usa persero alcune migliaia di aerei e velivoli ed altre migliaia di apparecchi vennero danneggiati, quindi la domanda tirava eccome.
Una seconda notizia risale al 15 ottobre e riguarda la domanda inoltrata da parte della Bethlehem Steel, il secondo gruppo siderurgico Usa, di usufruire del capitolo 11 della legge sui fallimenti che protegge le società dai creditori fino a ristrutturazione compiuta. Le motivazioni riguardano, come al solito, le difficoltà sul fronte delle importazioni d’acciaio. La prospettiva delle ristrutturazioni è comunque, e come sempre, quella di massicci licenziamenti di personale.
Inoltre dal rapporto della Bethlehem Steel emerge un fattore che chiama in causa i mercati finanziari. In America il sistema pensionistico è basato su fondi di pensione privati finanziati dai contributi dei salariati e delle aziende. La Bethlehem Steel ha 14.000 dipendenti e 70mila pensionati. Complessivamente il personale che riceve benefici ammonta a 130mila persone. E’ ovvio che un tale sistema è sostenibile solo se il monte salari ed i profitti lordi aumentano sufficientemente per sostenere l’erogazione dei soldi ai fondi e se gli investimenti borsistici dei fondi apportano un aumento nel valore di capitalizzazione. La deindustrializzazione del paese ha comportato salari in stagnazione ed in calo nonchè la perdita di posti di lavoro nelle industrie tradizionali che erano poi quelle che pagavano buoni stipendi all’insieme delle maestranze. In pratica la sostenibilità dei fondi di pensione è finita per dipendere dai mercati di capitale speculativo. Con la deflazione borsistica (un vero crollo per quanto riguarda la maggior parte delle azioni delle società quotate al Nasdaq) la loro sostenibilità è in crisi e ciò si ripercuote sulle società in termini di un ulteriore aggravio finanziario.
L’economia Usa (ma anche quella giapponese della quale è necessario seguire le vicende con maggiore attenzione) è quindi in una situazione di Catch 22: strutturalmente ha bisogno di investimenti reali produttivi. Tuttavia con l’emergere dei mercati di capitale speculativo gli investimenti dipendono dai mercati finanziari i quali danno la priorità ai rendimenti speculativi e solo secondariamente agli investimenti produttivi.
Il dominio dei mutual funds e istituzioni simili sui mercati finanziari significa inoltre che quando si innesta la deflazione borsistica le imprese ne soffrono in termini di investimenti reali nonché nella loro capacità di sostenere i fondi di pensione dei propri dipendenti. Questo significa che il predominio dei mercati finanziari, cioè dell’economia di carta, può facilmente far saltare anche le migliori intenzioni imperialistico-keynesiane.