Dunque non era vero. Comunque vada da ora in poi, è evidente che non c’erano le folle degli irakeni liberati pronti per accorrere con i fiori e i battimani ad accogliere i liberatori. Qualcosa non ha funzionato: gli americani erano stati mal informati, avevano sottovalutato il consenso che pure – è noto – le dittature riescono sempre a raccogliere. Non si erano posti con adeguata attenzione il problema dei cosiddetti “valori immateriali”.
Abbiano o no ragione, dal punto di vista degli irakeni gli statunitensi sono un esercito invasore che ha assalito il Paese senza dichiarazione di guerra. Curdi del nord e arabi sciiti del sud, nemici giurati di Saddam, non possono dimenticare che undici anni fa furono macellati dagli scherani del dittatore perché gli occidentali non si mossero. Contano quel lontano rancore, quella mai sopita diffidenza; conta soprattutto l’amore del proprio suolo, la dignità d’un popolo che un devennio di guerra e un dodicennio d’embargo evidentemente non ha piegato, che vive di nulla, che è abituato a soffrire.
Ora, ecco i kamikaze. È inutile stupirsene e indignarsene. Protestare contro i “metodi sleali di lotta”, come contro la “slealtà” dei civili che sparano sui militari in uniforme, è sciocco e contraddittorio. Non si può imporre una guerra senza dichiararla e senza il consenso dell’Onu con la quale ci si era pur impegnati e poi chiedere che il nemico sia, a sua volta, leale e corretto. Non ha senso bollare come sleali e contrari alla convenzione di Ginevra – lo sono – metodi di guerra che sono gli stessi della guerra partigiana in Europa durante la seconda guerra mondiale: metodi che cioè hanno fruttato a chi li impiegava medaglie al valore e tonnellate di attestati di benemerenza.
Ed è insensato anche stupirsi e indignarsi per i kamikaze. Anzitutto, smettiamola di stigmatizzarne la “viltà”. Chi si suicida nell’atto in cui reca lo sterminio tra i nemici può essere accusato di disumanità, può esser considerato un criminale, ma non un vile: è ben più vile di lui chi combatte una guerra bombardando da diecimila piedi un Paese che non ha né aviazione né copertura antiaerea, chi infierisce sicuro di essere quasi invulnerabile.
E non chiamiamo in causa il “fanatismo”. La questione è seriamente antropologica. L’Islam c’entra fino al terzo punto, con la sua venerazione per lo “shahid”, il martire. Sacrificarsi in battaglia portando con sé il maggior numero possibile di nemici è un’antica pratica eroico-sacrale: era, ad esempio, così strutturata la “devotio” dei capi militari romani, che si esercitava come un autentico rito magico. Ma è stata la modernità, con il culto dell’amor di patria portato ai livelli d’una sorta di paganesimo laicizzato, a imporre la dimensione dell’eroe che muore per la patria causando il massimo di perdite ai nemici.
Non a caso, il kamikaze giapponese della seconda guerra mondiale rientrava nel quadro sacrale dello shintoismo che si presentava come una religione profondamente connessa con la modernità, un aspetto del quale era il materialismo. È la luce di Sparta e quella delle tempeste d’acciaio della guerra moderna che illuminano il cammino dei kamikaze, non il fulgore della fede musulmana che pur onora e santifica il “martire”.
* professore ordinario di Storia Medievale presso l’Università di Firenze