Kabul, urla di gioia e scherno sul corpo dell’ italiano ucciso

Attorno al corpo del caporalmaggiore Giorgio Langella, privo di vita, si è svolta una scena raccapricciante. Mentre il militare italiano giaceva nella polvere, gli afghani manifestavano segni di allegria e soddisfazione. Cantavano e ridevano. Abbiamo ricostruito, grazie ad alcune testimonianze dirette, il comportamento davvero vergognoso di decine di persone accorse subito dopo l’ attentato a sud di Kabul, la mattina del 26 settembre. Per capire cos’ è veramente accaduto è necessario rivedere le fasi dell’ azione terroristica. Sono le 8 (le 5 e 30 in Italia), quando da Camp Invicta, la base italiana, escono tre veicoli blindati leggeri Puma con diciotto militari a bordo, sei per ogni mezzo. Sono diretti a Chahar As Yab, un villaggio 10 chilometri a sud della capitale, che riveste una certa importanza perché sede di un distretto amministrativo. Gli italiani vanno a dare man forte alla polizia locale che sta attuando un posto di blocco proprio nel centro abitato, lungo la via che taglia in due la distesa di basse casette scalcinate. Il convoglio entra nel villaggio e si trova ormai a trecento metri dal posto di blocco, forse i militari già vedono la polizia afghana laggiù sulla strada. E proprio in quel momento avviene un’ esplosione devastante. Gli attentatori avevano nascosto una carica enorme di esplosivo nel canale di scolo che corre sotto l’ asfalto. Con un congegno a distanza la fanno saltare in aria proprio mentre passa l’ ultimo dei tre veicoli. Il Puma è scaraventato almeno un paio di metri in alto. Si capovolge e ricade con il tetto a terra e le ruote in aria. Si mette a girare violentemente su se stesso. Siccome nell’ urto i portelloni si sono spalancati, i militari vengono scagliati fuori dalla forza centrifuga. Soltanto l’ autista Salvatore Coppola rimane incastrato, a testa in giù, fra il sedile e il volante. Il caporalmaggiore Giorgio Langella è morto sul colpo perché ha sbattuto la testa con enorme violenza. È disteso sulla strada a braccia aperte. Dalle case accorrono decine di persone urlanti. Circondano gli italiani e ridono. Il maresciallo Francesco Cirmi e il caporalmaggiore Vincenzo Cardella (che poi è deceduto a causa delle ferite riportate) sono quasi svenuti. Il maresciallo ha la testa insanguinata, mentre la tuta mimetica di Cardella è zuppa di sangue che esce dalle profonde ferite alle gambe. Gli afghani li deridono e non muovono un dito per soccorrerli. Quando capiscono che fra i soldati c’ è una donna, tutti gli afghani si affollano attorno a Pamela Rendina, la ventiquattrenne napoletana che si contorce sull’ asfalto. Pamela ha il gluteo sinistro lacerato da una scheggia e il collo dolorante perché ha picchiato la testa. Non riesce a rimettersi in piedi. Ha perso l’ elmetto, i lunghi capelli corvini sono sparsi nella polvere. E quelli cominciano a insultarla, la irridono, si levano urla minacciose contro di lei. Poco più in là si svolge un’ altra scena ributtante. Un uomo ha visto gli occhiali da sole schizzati via quando Langella ha battuto la testa. Si precipita a raccoglierli e se li infila e la gente attorno accoglie il gesto con uno scroscio di risate. I soldati che viaggiavano sugli altri due veicoli accorrono a proteggere i feriti, cercano di tenere lontana la folla, ma non c’ è verso. La gente si sposta, aggira la barriera protettiva che i militari hanno formato e continua a sghignazzare senza allontanarsi. Il capitano francese Legrand non crede che gli afghani si siano accaniti contro i feriti perché erano italiani. «Forse neanche sapevano di che nazionalità fossero. Non è la prima volta che le vittime di un attentato suscitano il divertimento degli afghani. Assurdo, perché siamo qui per aiutarli. Io credo che questa gente, dopo anni di guerre e violenze, ha perduto il senso del dolore e della morte». Sarà forse una minoranza a nutrire ostilità nei confronti dei militari. In generale però gli umori non appaiono benevoli. Con franchezza bisogna dire che anche i gruppi della cooperazione civile mal sopportano la presenza dei militari. Hanno tenuto una riunione a Kabul con la viceministro degli Esteri Patrizia Sentinelli (Rifondazione comunista), sono venuti anche da Herat, e tutti in coro hanno chiesto di rimandare a casa i militari per avere mano libera nella ricostruzione e nella gestione dei fondi, senza l’ assistenza dei soldati. La loro tesi è che i militari sono visti come occupanti, perciò si attirano le bombe, mentre gli aiuti portati dai civili sarebbero ben accolti dalla popolazione. Al contrario la bellissima Fawzia Kofi, vicepresidente della Wolesi Jirga, la Camera Bassa del Parlamento, è sicura che «se i militari vanno via, non ci sarà più sicurezza e anche per i civili sarà impossibile lavorare».