Kabul, una città sotto assedio

Gli afghani «sono stanchi, dopo 30 anni di guerre», dice Freishta Karimi, giovanissima giurista di Kabul: «E però stiamo rischiando un nuovo conflitto: in Afghanistan, se escludi i vinti stai certo che riprenderanno le armi. E’ stato un errore non cercare un compromesso con chi stava con i Taleban, non reintegrarli nel processo politico. Ora però trattare con loro come forza ribelle è un altro errore, perché non riconoscono la costituzione né le regole democratiche».
Karimi, appena 24 anni, è la co-fondatrice di Qanum Ghuntonkey, un’associazione che si è data uno scopo preciso: offrire assistenza legale gratuita a chi non può permettersi un avvocato. Il gruppo conta ormai 31 avvocati e lavora in 5 province, grazie a piccoli finanziamenti da ambasciate europee; difende gratis chi ne ha bisogno: soprattutto le donne, perché sono le più vulnerabili nella società afghana. Organizza anche programmi di formazione per magistrati, avvocati e studenti in legge: nella piccola sede dell’associazione, in una modesta palazzina nella parte nuova di Kabul, è un gran daffare di seminari e riunioni. Freishta Karimi e i suoi colleghi credono fermamente nell’idea di democrazia, e lavorano con passione perché in Afghanistan i cittadini abbiano dei diritti. Perciò trema all’idea che i Taleban rientrino nella gestione del potere.
Ma davvero il governo del presidente Hamid Karzai sta negoziando con i «ribelli»? A Kabul tutti lo pensano, e la convinzione poggia su qualche elemento di fatto: uno è il caso di Musa Qala, distretto della provincia meridionale di Helmand, dove in settembre il governatore provinciale Mohammad Daud ha raggiunto un accordo di pace con il consiglio degli «anziani», i capitribù. Musa Qala è una zona dove nell’estate le truppe britanniche si erano trovate di fatto assediate dai ribelli Taleban. In settembre hanno chiesto un cessate-il-fuoco; poi il governatore Daud ha negoziato con gli «anziani» e in ottobre le truppe britanniche si sono ritirate.
Secondo l’accordo, i capitribù si sono impegnati alla fedeltà al governo e alla bandiera afghana, riaprire le scuole, permettere le opere di ricostruzione e svilupppo, garantire la sicurezza e limitare la presenza dei ribelli. Hanno indicato i loro candidati alle cariche di capo della polizia e capo del distretto, e raccolto 60 uomini che ora formano una «polizia locale» (altrove la chiamano «polizia tribale»: invenzione ambigua in cui non è sempre chiara la distinzione tra polizia e milizia come ai tempi dei mojaheddin, commenta Fahim Hakim, commissario nazionale della Commissione indipendente per i diritti umani, Aihrc).
Per il momento l’esperimento di Musa Qala funziona, o almeno così tutti vogliono credere: da due mesi ormai non si spara, gli abitanti hanno cominciato a ricostruire le case, è avvenuta la semina (in particolare di papavero da oppio, riferiva giorni fa il New York Times dopo una piccola indagine tra gli abitanti). Se le cose continuano così, si commenta nelle ambasciate europee a Kabul, l’esperimento si potrà estendere.
La psicosi della resa
L’accordo di Musa Qala, fatto senza nessuna consultazione pubblica, ha sollevato critiche e paure in Afghanistan. Per molti deputati e politici legati alla vecchia Alleanza del Nord – gli ex comandanti della resistenza antisovietica (e anti-Taleban), di solito definiti «signori della guerra» dai critici e «mojaheddin» da chi li apprezza – quell’accordo equivale a riconoscere il «nemico», un’ammissione di sconfitta militare.
In teoria, fanno notare, l’accordo di Musa Qala è stato negoziato con i capitribù, ma in realtà dietro di loro c’erano i Taleban. Dunque, si mormora, prelude a negoziati più ampi con ribelli in armi: i Taleban e il oro alleato del momento, il Hizb-e-Islami (Partito dell’Islam) del comandante Gulbuddin Hekmatyar. Negli anni scorsi alcuni ex dirigenti del passato regime sono stati amnistiati (ma individualmente), e il governo Karzai ha un programma per reintegrare i combattenti che depongono le armi (procede lento, 1.500 persone in oltre un anno). Altro sarebbe negoziare con Mullah Omar, il fondatore dei Taleban che si nasconde da qualche parte attorno a Kandahar…
Che i negoziati siano un fatto o una psicosi, ormai poco importa: l’impressione generale è che il governo Karzai (e le forze internazionali che lo sostengono) non possano vincere sul campo contro i ribelli. Del resto, sono proprio i generali della Nato a suggerire che bisogna reintegrare anche i Taleban nella società afghana (vedi il manifesto, 23 novembre).
Le fazioni e partiti dell’Alleanza del Nord (che si considerano i vincitori, benché siano stati i bombardamenti americani a sconfiggere i Taleban) oggi occupano il potere e si capisce che temano di dover accomodare altri pretendenti. Ma l’ipotesi di negoziare con i ribelli armati preoccupa soprattutto le organizzazioni indipendenti e gli attivisti per i diritti umani. «Non siamo contrari a un dialogo costruttivo», dice Hakim, «ma non ci può essere compromesso sui principi: chi partecipa al dialogo deve riconoscere la costituzione e i principi della giustizia, dei diritti umani e delle donne. E non mi pare che sia il caso di Mullah Omar, che non riconosce legittimità a questo governo e promette un processo islamico a Karzai». Hakim aggiunge però che «non c’è pace e stabilità senza giustizia», bisogna perseguire i crimini commessi dai numerosi signori della guerra: ma il governo Karzai non ha la volontà e la forza per applicare il programma di «giustizia in transizione» approvato un anno fa, e così rafforzare lo stato di diritto mettendo fine all’impunità. Perfino i nomi di violatori dei diritti umani elencati nei rapporti di Humar Rights Watch restano nel governo o nel parlamento… La Commissione per i diritti umani non riesce a lavorare nelle zone dei ribelli, ma riceve pressioni e minacce anche dai signori della guerra del campo governativo.
Negoziati? «Anche noi parlamentari sentiamo queste voci e condividiamo l’allarme» dice Fawzia Koofi, la vicepresidente del parlamento. Al tempo dei Taleban viveva nella sua provincia, il Badakshan, a nord, sotto il controllo dall’Alleanza del Nord; lavorava per l’Unicef e racconta che anche i signori del nord la obbligavano a coprirsi con il burqa. «Il governo non può trattare con chi non riconosce la Costituzione», aggiunge. Si capisce che i negoziati, se ci sono, non coinvolgono il parlamento.
Le mine e la divisione del potere
Nello stadio di Kabul, in un sobborgo orientale della città, al tempo dei Taleban durante l’intervallo delle partite si tenevano le esecuzioni: il pubblico poteva fare il tifo mentre donne sepolte fino al collo erano lapidate e ladruncoli avevano le mani tagliate (nel 2003 erano ancora visibili le buche, raccontano gli addetti della Commissione per i diritti umani). poco oltre lo stadio oggi si trova il «museo delle mine» di Omar, acronimo di Organization for Mines Awareness and Rehabilitation: è una ong che fin dai tempi dei Taleban lavora per sminare e per insegnare alle popolazioni, soprattutto ai bambini, come guardarsi dalle mine, uno dei lasciti di trent’anni di conflitto. Nel corso degli anni gli sminatori hanno raccolto un campionario di ordigni disinnescati, ora esposti insieme a qualche relitto di aerei e razzi delle prime guerre afghane.
«E’ evidente che l’Afghanistan non è stabilizzato» ci dice Fazel Karim Fazel, fondatore di Omar, in un grande ufficio pieno di divani. La sua diagnosi è impietosa. «Il governo fa un gran parlare di riconciliazione. L’appello a rientrare nel gioco politico è giusto. Ma Karzai è una mediocre persona. E il governo è dominato dall’Alleanza del nord, cioè dai più grandi piantagrane del paese». Fazel (un pashtoon, se non fosse chiaro) elenca: i vicepresidenti sono un tajiko e un hazara, 14 ministri sono dell’Alleanza del nord e solo 5 o 6 sono pashtoon; sono signori della guerra del nord il capo dell’esercito e quello dei servizi segreti, i ministri dell’interno, degli affari religiosi, dell’energia… «La suddivisione del potere è stata ingiusta, i pashtoon sono il 70% della popolazione ma sono sottorappresentati», conclude (per questo, dice, ha fondato un canale tv: Shamshad, emette da qualche mese e presto sarà satellitare).
«Tornano i Taleban? Se tornano con la vecchia ideologia antimoderna, qui nessuno più li vorrà. Ma se accettano la costituzione e le regole democratiche, perché no? Anch’io li sosterrei. Tutti ricordano i crimini commessi dagli ex comandanti mojaheddin durante la guerra civile, le stragi, gli stupri». Fazel, come molti, è convinto: se la Nato non fosse in Afghanistan, «in una settimana i Taleban sarebbero a Kabul».