Eppur si muove. Nelle secche di un dibattito troppo spesso ridotto alla conta dei voti, l’Afghanistan rientra a gamba tesa nelle cronache di questi giorni. La vicenda di Daniele Mastrogiacomo, ma anche l’imminente voto al senato sul rifinanziamento della missione, stanno facendo discutere su un interrogativo. E dopo? Il rischio è che il paese di Karzai, ma soprattutto di quei milioni di afgani che sino ad ora non hanno avuto voce in capitolo, riprecipiti nell’oblio. O nella contrapposizione ideologica tra il ritiro senza se e senza ma e l’ostentazione del contratto internazionale siglato in sede Nato. C’è insomma necessità di capire e, soprattutto, di proporre al governo e al parlamento le suggestioni di una società civile preoccupata, sia da una permanenza dei nostri soldati in Afghanistan senza un mandato chiaro, sia dall’opzione del ritiro immediato. Così almeno pensano personaggi tra loro molto diversi ma che vorrebbero riempire di senso il vuoto politico che si respira attorno al nodo afgano.
«Bisognerebbe ragionare attorno a un’ipotesi di dialogo allargata – dice Giulio Marcon di Sbilanciamoci – dove si confrontino opinioni differenti per uscire dall’impasse». Una serie di iniziative, pensa Marcon, che potrebbero prefigurare «una presenza internazionale radicalmente diversa dall’attuale». L’obiettivo di molti è arrivare a stimolare un’opzione politica forte di cui l’Italia potrebbe farsi promotrice alle Nazioni Unite, dove dovrà riferire a marzo e ad ottobre. Ma anche in vista della Conferenza di pace di cui molto si parla ma che per adesso è solo una nebulosa dai contenuti altrettanto sfumati. L’ipotesi che il mondo accademico, sinora ai margini del dibattito sull’Afghanistan, possa partecipare a un’iniziativa allargata piace anche ad Elisa Giunchi, cofondatrice di Asia Maior, think tank italiano sull’Asia che riunisce esperti e studiosi di cose asiatiche. L’autrice del primo saggio storico uscito in Italia («Afghanistan, storia e società nel cuore dell’Asia»), fresco di stampa per Carocci, pensa che «un’iniziativa allargata avrebbe modo di dar voce a competenze e saperi finora rimasti fuori dal dibattito» e di cui intanto Giunchi si è fatta promotrice, con la Casa della cultura di Milano, per un prossimo appuntamento a maggio dove invitare studiosi italiani e stranieri.
L’idea di fondo su cui in molti stanno ragionando è dunque quella di un’iniziativa che raccolga le energie di quanti, nelle università, nel movimento pacifista, nel mondo della cultura sono disposti a dare un contributo per riempire il vuoto politico che circonda la nostra presenza in Afghanistan, senza eludere il nodo «sicurezza» e il ruolo dei militari.
«L’Afghanistan sta sprofondando in un nuovo Iraq, demolito nelle sue speranze ancor più che nelle sue infrastrutture, senza riuscire ad immaginare una via d’uscita», commenta Gianni Rufini, docente di aiuto umanitario all’Università di York. «Via d’uscita che dobbiamo a questo disgraziatissimo paese, nei cui confronti abbiamo l’imperativo di fare qualcosa. Lo dobbiamo agli afgani in quanto esseri umani, anche per fermare una violenza diffusa, capillare e quotidiana. Si tratta dunque di capire “cosa” si debba fare e “come” procedere. Non “se” bisogna agire. Ben venga dunque ogni iniziativa in questa direzione». Rufini lo ha messo per punti in un articolo scritto per il sito di Lettera22 (rivedere il mandato del Consiglio di sicurezza alla forza di peacekeeping e stabilizzazione, investimento massiccio in aiuti umanitari, sostegno alla nascita della società civile locale, politica dell’oppio) aggiungendo quello che nessuno dice: forse negoziare col nemico. Un tema su cui il sito dell’agenzia giornalistica ha aperto un sondaggio. Sorpresa: il 60% dei votanti è d’accordo, il 30% lo è a «certe condizioni», e il 10% lo ritiene invece inutile o da non praticare perché «non si tratta coi terroristi». La sensazione è dunque che qualcosa si muova e che, se iniziativa ci sarà, l’idea sia di non ragionare per schieramenti ideologici ma con l’idea di dare un contributo. Anche la Fiom si dà da fare: «Per costruire un osservatorio sul paese», dice Alessandra Mecozzi, «ed evitare che, votata la missione, l’Afghanistan torni solo a essere un incubo da dimenticare».