Kabul, 600 soldati in più, missione «nuova»

L’affermazione del ministro della difesa afghano secondo cui le forze italiane parteciperanno a operazioni militari anche nel sud del paese è stata definita dal ministro della difesa Arturo Parisi «priva di ogni fondamento sia per quel che riguarda il presente sia per il futuro». Parisi ha quindi aggiunto che, «qualora dovessero determinarsi situazioni straordinarie che richiedessero l’intervento fuori area», esse dovrebbero essere sottoposte caso per caso al governo italiano (che avrebbe 72 ore per rispondere).
Il ministro si è però dimenticato di quanto era avvenuto a Kabul due giorni prima: il 6 agosto, la Brigata multinazionale Kabul, di cui fanno parte le forze italiane, ha assunto la denominazione di «Regional command capital» (Comando regionale della capitale). Lo annuncia anche il ministero italiano della difesa, senza però chiarire il perché. Lo spiega invece la Nato/Isaf in un comunicato del 7 agosto: «Il cambio di nome pone l’area di Kabul in linea con la struttura Isaf in funzione nel resto dell’Afghanistan. Il vecchio nome rifletteva il fatto che, in origine, l’Isaf era responsabile solo dell’area di Kabul. Questa nuova struttura, basata su comandi regionali, è più appropriata a una missione fortemente estesasi, che ora copre l’87% dell’Afghanistan».
Si tratta quindi non solo di un cambio di nome ma di struttura, che cancella la distinzione fatta da Parisi tra intervento nell’area di Kabul e «fuori area». D’altronde è lo stesso ministero della difesa italiano ad affermare che la «missione» in Afghanistan, nel quadro dell’Isaf a guida Nato, è quella di «mantenere un ambiente sicuro a Kabul e, più in generale, in tutto l’Afghanistan». Le forze italiane fanno quindi parte di un’unica struttura militare le cui regole d’ingaggio – ha dichiarato il generale britannico David Richards, attuale comandante Isaf – sono «le più dure mai stabilite dalla Nato», in quanto consentono non solo di «difendersi in maniera adeguata» ma di «intraprendere azioni militari preventive». Lo si è visto da quando le forze Nato hanno sostituito il 31 luglio quelle Usa sul fronte meridionale: a rastrellare i villaggi a caccia di taliban (o presunti tali) non sono più solo soldati Usa ma militari europei della Nato; a bombardare non sono più solo aerei Usa ma anche caccia Nato. Queste forze sono agli ordini del comandante supremo alleato in Europa, il generale statunitense James Jones, che ha nominato il generale italiano Emilio Gay «vice-comandante della stabilità». Le forze italiane, ovunque siano dislocate, fanno parte di questa macchina bellica e sono quindi esposte agli attacchi della resistenza.
Non c’è quindi da stupirsi che, in una guerra che diviene ogni giorno più dura e sanguinosa, ci sia bisogno di inviare più truppe. È quello che ha fatto l’Italia: il numero dei militari italiani nella missione Nato/Isaf è passato da 506 nel febbraio 2005 a 1350 nel luglio 2006. A questo punto, per neutralizzare gli oppositori al rifinanziamento della missione, il governo Prodi ha promesso, come afferma il decreto per le missioni all’estero, di «non modificare le regole d’ingaggio né aumentare le truppe». Ora però il ministero della difesa annuncia che «per l’Afghanistan è autorizzata la partecipazione di 1.938 militari italiani»: 600 in più che a luglio (senza contare i 380 impegnati in Enduring Freedom), più di quelli dislocati in Iraq (1.677). Quindi è cambiato tutto: sia le regole d’ingaggio che il numero di militari. Cambierà qualcosa anche nelle forze di governo?