Julius Fucik, reportage da una cella nazista

Il racconto dell’ultimo anno di vita di Julius Fucik, che lui definì reportage e testimonianza, dedicandoli ai compagni che gli sarebbero sopravvissuti, è stato scritto nel carcere praghese di Pancrak in mano agli occupanti tedeschi, fra quotidiane torture e con la certezza di una fine prossima e atroce. Il coraggio di alcuni carcerieri che fornirono carta e matite e consegnarono i fogli scritti in mani sicure, consentirono alla moglie, Gosta, anche lei detenuta, di raccoglierli, al ritorno dal campo di sterminio di Ravensbrück. Il loro autore, giornalista e scrittore, membro del comitato centrale del Partito comunista Ceco, era stato arrestato dai nazisti nell’aprile del 1942 e fucilato l’8 settembre del 1943. Scritto sotto la forca (oggi rieditato dalla Città del Sole, pp. 121, euro 7) fu pubblicato in Italia nei primi anni ’50, quando la memoria dell’occupazione tedesca e della guerra partigiana facevano parte del presente, come il pianto delle famiglie in lutto, e volti e nomi dei compagni e di nemici erano vivi e brucianti come le ferite dei sopravvissuti. Lo scritto di Fucik diventò oggetto di culto per centinaia di giovani comunisti e lasciò un segno profondo in quanti lo lessero. Nella prefazione alla prima edizione Franco Calamandrei definisce Scritto sotto la forca un esempio unico nella letteratura resistenziale, scritto dall’unico uomo che «al cospetto della morte, già crudelmente lacerato dalle torture… sia riuscito a esprimerci la sua esperienza di moribondo per pagine e pagine… e a dichiararci la fiducia che lo sostiene in maniera così diffusa e circostanziata da cancellare l’ombra della morte e lasciarci l’immagine di una vitalità appassionata e trionfante», parole alle quali vorrei aggiungere solo un aggettivo: gioiosa. Ai «compagni che sopravviveranno a quest’ultima battaglia», il condannato lascia una direttiva che è un comando: «Quanto a me e a Gosta abbiamo adempiuto il nostro dovere… abbiamo vissuto per la gioia, per la gioia siamo andati a combattere e per la gioia morremo. Il dolore non sia mai legato al nostro nome». La gioia di un futuro splendente, dopo la sconfitta di quel vecchio mondo ingiusto del quale il fascismo e la guerra sono l’ultimo, sanguinoso, colpo di coda, ma anche le piccole gioie quotidiane che perfino un luogo di oppressione come il carcere può offrire a chi sia disposto a goderne. Il ragù della domenica che diventa «qualcosa di civile, qualcosa di normale nella anormalità della prigione della Gestapo», lo «stupido gioco dei dadi», le discussioni dei compagni, perché «avere due opinioni diverse nelle piccole cose è il sale della vita in cella», ma anche la curiosità di un intellettuale marxista per i due “mondi paralleli” del carcere: quello dei detenuti, l’amicizia fra i quali «è la stessa che si forma al fronte, nel corso di lunghi periodi, quando la tua vita può essere oggi nelle mie mani e domani la mia nelle tue» e quello dei secondini tedeschi e cechi che vivono in una atmosfera di reciproco sospetto. Nel descriverli Fucik usa la penna arguta e incisiva del polemista e traccia ritratti di piccoli speculatori, ambiziosi che aspirano «a diventare qualcuno», brutti ottusi e crudeli, poveri uomini che cercano solo di salvare la pelle e li definisce «figurine di legno tarlato» da contrapporre alle «figure scolpite nella pietra di quelli che hanno servito fedelmente l’avvenire e sono caduti per la sua bellezza». Come Giuseppe e Maria, lui elettricista, lei domestica, militanti comunisti arrestati a casa loro e morti in campo di sterminio, come Carlo, operaio che ha rubato esplosivi per la Resistenza nella fabbrica dove lavorava, fucilato, come Lida, staffetta adolescente che forse si salverà, come quei carcerieri che, conoscendo meglio di tutti ciò che rischiano, si prodigano per rendere meno dura la prigionia ai loro compagni. Figure e figurine che debbono essere ricordate perché «non esistono eroi anonimi» e a ogni caduto spetta il ricordo e il riempimento che si riservano a un figlio o a una figlia perduti e perché «bisogna vedere anche le figurine vivere nella loro infamia, nella loro crudeltà e nel loro ridicolo, perché è tutto materiale che ci insegna l’avvenire». Fucik sa che non potrà vedere l’avvenire della libertà e del socialismo, sa di lasciare una compagna amatissima della quale ignora la sorte, i suoi scritti incompiuti, le albe, i tramonti, le magiche strade notturne della bella Praga ma si considera «un soldato che combatte nelle retrovie del nemico», come dirà ai suoi compagni di prigionia pochi giorni prima di essere giustiziato, e ha messo la morte nel conto delle possibilità. Quello che importa, ora è lasciare all’avvenire e a quelli che lo vivranno i frutti del su lavoro e della sua esperienza. Tutto questo e altro ancora è Scritto sotto la forca. Riproporlo oggi significa regalare ai giovani di allora e a quelli che crescono nel secolo appena iniziato, uno strumento e un’arma da impugnare per aiutarsi a uscire dal malinconico lago delle delusioni e delle sconfitte o dal torbido fiume della rassegnazione e una realtà priva di ideali, in cerca di strade nuove verso antichi orizzonti ora più che mai necessari e realizzabili. Dove la gioia si conquista con la lotta.