Immaginate la superfice della Florida: è pari all’area di foreste tropicali scomparsa negli ultimi 12 anni in Indonesia. E’ uno dei dati citati dalla Banca Mondiale, che ha pubblicato un nuovo rapporto sullo stato delle risorse naturali nella grande nazione del sud-est asiatico (Indonesia: Environment and Natural Resource Management in a Time of Transition, 2001). Ed è la stessa Banca mondiale ad avvertire che gli habitat naturali più ricchi e importanti dell’Indonesia, in particolare le foreste in pianura, rischiano di scomparire del tutto in pochi anni: già nel 2005 a Sumatra, nel 2010 a Kalimantan (il Borneo).
In un certo senso, l’ultimo rapporto della Banca mondiale non fa che confermare gli allarmi che ci vengono dalle organizzazioni ambientaliste e sociali indonesiane, raccogliendoli in un quadro sistematico. Parla soprattutto di “uso della terra e delle sue risorse”, ad esempio di deforestazione e gestione dell’agricoltura. E mette tutto questo nel quadro più generale delle croniche crisi economiche, sociali e politiche attraversate dall’Indonesia a partire dal 1997-’98, ovvero dalla grande Crisi asiatica.
Così, scopriamo che la perdita di foreste, già alta a metà degli anni ’90, è aumentata e aggravata da devastanti incendi forestali, su scala senza precedenti per numero ed estensione geografica, in particolare nelle due isole più ricche di risorse naturali – ovvero Sumatra e Kalimantan, dove gli incendi sono usati per preparare nuovi terreni per le grandi piantagioni industriali, prima della semina. Le mappe forestali compilate dal ministero delle foreste indonesiano per Kalimantan, Sumatra, Sulawesi e Papua occidentale (Irian Jaya) rivelano che la deforestazione mantiene un ritmo più alto del previsto: 1,7 milioni di ettari all’anno tra il 1985 e il ’97. Nell’insieme, in queste isole (definite dall’amministrazione indonesiana le “isole esterne” rispetto a Java, considerata il centro) sono scomparsi 20 milioni di ettari di foresta tra il 1985 e il ’97, ovvero in 12 anni: è superfice pari a un quarto delle foreste che esistevano nel 1985. Del resto altri rapporti segnalano che l’Indonesia esporta più legname di quanto ufficialmente e legalmente se ne tagli: ovvero il taglio illecito è un’industria su larga scala.
Ad aggravare la situazione, la Banca mondiale cita due elementi. Uno è che la crisi economica cominciata nel ’98, con la rupiah che ha perso l’80% del suo valore e il collasso di gran parte del settore industriale a Java, l’Indonesia si è rivolta alle sue risorse naturali per sopravvivere: e questo è avvenuto sia a livello di decisioni politiche (incoraggiare lo sfruttamento di legname, piantagioni di palma da olio e altre possibili risorse da export), sia a livello popolare: le famiglie, coloro che hanno perso il lavoro a Java e tornano nei villaggi, i nuovi “trasmigranti” mandati a colonizzare e coltivare territori “vergini” (o presunti tali). Altro elemento è la virtuale scomparsa del controllo centrale sugli affari regionali: e spesso le élites locali sono ancora più voraci di quelle di Jakarta. Così, la Banca mondiale segnala un aumento impressionante dello sfruttamento illegale del legname e delle miniere. Già: negli anni ’90 l’Indonesia aveva visto un boom delle attività minerarie – controllate da granzi aziende multinazionali, con operazioni che coinvolgono centinaia o migliaia di ettari di territorio in ciascun sito (e con un corollario di inquinamento, incidenti, contaminazione dei fiumi con sostanze che persitono per decine d’anni). E questo è tra i pochi settori che non hanno sofferto con la crisi asiatica: ma accanto alle grandi attività sono proliferate piccole aziende, attività semiartigianali, piccole miniere di carbone e d’oro, con una moltiplicazione dello sfruttamento bestiale, degli incidenti e dell’inquinamento.
L’effetto di tutto questo è sentito in primo luogo e più duramente dalle comunità rurali più povere, che dipendono dalle risorse naturali per la sussistenza. Ma è un disastro per tutta l’Indonesia, e per la sua economia così dipendente dalle risorse naturali.