Ivanov contro Ivanov

Mosca.
Il presidente russo Vladimir Putin una decisione l’ha presa, dopo un fine settimana passato al telefono con Washington e con i colleghi delle Repubbliche dell’Asia centrale. Ma il fatto che di questa decisione, della cui esistenza sono stati informati i capigruppo della Duma, non siano noti i dettagli fa capire che al Cremlino il dibattito, e quella che si potrebbe definire la guerra dei due Ivanov, ha lasciato il segno.
Il più cinico è il ministro della Difesa, Sergej Ivanov, l’ex ufficiale del Kgb che Putin ha voluto con sé al Cremlino come segretario generale del Consiglio di sicurezza e poi ha destinato qualche mese fa alla testa del più complicato dicastero. Sostenuto dal capo di Stato maggiore, Anatolij Kvashnin, il ministro non perde occasione per raffreddare ogni entusiasmo per una grande coalizione contro il terrorismo internazionale che veda la Russia a fianco degli Stati Uniti. Forte dei privilegi che gli conferisce l’amicizia col presidente, Ivanov si è spinto al punto di sconfessarlo.
E’ accaduto il 13 settembre quando si è concesso un’interpretazione riduttiva del senso delle due telefonate tra Putin e George W. Bush. Mentre i propagandisti del Cremlino si affannavano a far sapere che il presidente era l’unico capo di Stato cui l’inquilino della Casa Bianca si era sentito in dovere di parlare di persona, Ivanov ha messo le mani avanti dicendo che un coinvolgimento militare russo era fuori discussione. Uscita che a Putin non è piaciuta, a giudicare dalla freddezza con cui ha trattato il suo antico sodale durante una visita in Armenia. Sarà anche stata azzardata, ma la mossa di Ivanov è stata decisiva nell’impedire che a Mosca prevalesse il punto di vista del suo quasi omonimo, Igor Ivanov, ministro degli Esteri di fede primakoviana che dalla sera dell’11 settembre spinge per un’alleanza con Washington che ponga la Russia in posizione di primo piano all’interno della coalizione antiterroristica. Proprio Igor Ivanov, ieri, ha indirettamente criticato l’approccio unilaterale degli Stati Uniti sul dossier della riforma dei trattati che regolano la non proliferazione degli armanenti e ha ribadito quanto sia importante creare un risposta “collettiva” alla minaccia del terrorismo.
I vantaggi di tale scelta non sarebbero di poco conto anche per Mosca, al di là di quelli ovvii, consistenti nel godersi in prima fila l’archiviazione del dossier scudo spaziale e nell’avere un alibi perfetto per proseguire le azioni in Cecenia.
Primo vantaggio: l’allargamento della Nato a paesi dell’Est europeo non avrebbe più ragion d’essere. Perché mai configurare una futura Europa come se la Russia fosse ancora il nemico da contenere, se poi Mosca è alleato indispensabile in un conflitto che ha come teatro l’Asia centrale? Senza contare che in questa crisi l’Alleanza atlantica si è mossa in seconda battuta rispetto agli Stati Uniti. A Putin oggi basta definire una partnership con Bush per scavalcare la Nato e ridurla al rango di braccio armato regionale.

Il presidente va in Germania.

Secondo vantaggio: tramontano l’illusione americana di normalizzare l’Asia centrale e il sogno di tracciare rotte energetiche dal Caspio e dal Kazakistan che evitino la Russia. Al Cremlino è sufficiente riuscire a dimostrare che anche la Georgia è a rischio, soggetta com’è a continue infiltrazioni dal confine con la Cecenia, e il gioco è fatto. L’unico oleodotto sicuro in partenza da Baku si conferma quello russo con arrivo al terminal di Novorossijsk sul Mar Nero. Sarà tanto più sicuro quanto più sarà sconfitta la guerriglia indipendentista cecena.
Terzo vantaggio: Mosca può premere per riconsiderare la vicenda jugoslava degli anni 90, proponendo una lettura che vede nell’asse russoserbo il primo e incompreso antemurale contro il terrorismo islamico, ma soprattutto può chiedere una risistemazione dei Balcani che trasformi la regione in un avamposto militare di pronto intervento. Non a caso in questi giorni si moltiplicano le indiscrezioni sull’attività di Osama bin Laden in Bosnia intorno alla metà del decennio scorso.
La Russia insomma è messa in grado di costringere gli Stati Uniti ad abbandonare le vecchie concezioni geopolitiche e ad accettare l’esistenza di una linea del fronte che va dai Balcani all’Asia centrale. Una linea che Mosca si candida a presidiare con un ruolo di primo piano. Al ministero della Difesa però liquidano questi scenari come improbabili, fantapolitici. Ivanov Sergej ha un forte pregiudizio antioccidentale, maturato nel Kgb, e la sua idea è quella di aiutare gli Stati Uniti il minimo indispensabile, quel tanto che serve per farli sovraesporre in una guerra “infinita” e lasciarli impantanare in Asia centrale, per poi approfittare della loro debolezza e farsi pagare a caro prezzo l’aiuto che saranno costretti a chiedere. Putin è stato a lungo incerto, come conferma l’estrema gradualità con cui ha messo a disposizione un sostegno che è ancora fatto soltanto d’intelligence, di concessioni di spazi aerei e di pressioni sull’Uzbekistan. Particolari più precisi forse saranno resi noti oggi nel corso della visita in Germania.