Italiana e donna, nessun altro in Europa ha buste paga così leggere

Gli italiani? i peggio pagati d’Europa. E le italiane? Nell’anno europeo contro le discriminazioni di genere, nel nostro paese continua ad essere praticata in modo pesante e diffuso la discriminazione retributiva. Dunque le donne italiane sono le peggio pagate tra i peggio pagati d’Europa.
E pensare che: «Costituisce discriminazione diretta qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici in ragione del loro sesso. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento “apparentemente neutri” mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio».
Così sentenzia il decreto legislativo numero 198, emanato un anno fa, che riporta il “Codice delle pari opportunità” dove si parla, al Titolo I Libro III, specificatamente di «pari opportunità nel lavoro» e in cui all’articolo 28, in modo ancora più preciso, si impone il «divieto di discriminazione retributiva»; in continuità da un lato con la Costituzione italiana che all’articolo 37 afferma: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore», e dall’altro con la normativa europea sul “Codice di condotta per l’applicazione della parità retributiva tra uomini e donne per lavoro di pari valore”, che «si propone di fornire “consigli concreti” ai datori di lavoro e alle parti sociali a livello di impresa, di settore o a livello intersettoriale per garantire il principio di parità in tutti gli elementi della retribuzione tra uomini e donne che effettuano un lavoro di uguale valore».
Aria fritta: in Europa in generale, e in Italia in particolare, «le donne guadagnano meno in media rispetto agli uomini pur esercitando la stessa mansione nello stesso grado di carriera». Quanto meno? Nel Rapporto sulle retribuzioni l’Od&M dice che nel 2005 un dirigente medio maschio guadagnava all’incirca 94mila euro l’anno mentre la sua collega femmina arrivava sì e no a 86mila, il 9,3% in meno. Per i quadri la differenza sta tra i 48mila euro al maschile e i 46mila al femminile, pari al 4,4% di differenza, mentre per gli impiegati contro i 26mila euro di un uomo si hanno i 23mila per una donna, con una discriminazione del 13%. Mille euro in meno anche per un’operaia, che ne guadagna in media 20mila contro i 21mila del suo collega “con gli attributi”, subendo un gap del cinque per cento.
La questione è stata riaperta qualche giorno fa dalla rappresentante tedesca dei Verdi al Parlamento europeo Hiltrud Breyer che ha presentato un’interrogazione sulle disparità retributive rispetto al sesso, sostenendo che in Germania tale discriminazione pesa per il 26% e chiedendo: «Ha la Commissione l’impressione che siano punite in modo adeguato le violazioni della normativa Ue?», e: «Quali passi ventila la Commissione, a livello europeo, per combattere le disparità retributive legate al sesso?».
I numeri nudi e crudi, elaborati da un istituto francese (Msm) da un centro di ricerche spagnolo (Icsa) e per l’Italia dall’Od&M, confermano che la discriminazione è, nel settore privato di casa nostra, del 28,7%, del 26,9 in Spagna, del 26 in Germania, come denuncia Hiltrud Breyer, e “solo” del 14,5% in Francia, dove le donne, tra l’altro, entrano massicciamente nel mondo del lavoro.
Una doccia fredda sulle cerimonie (?) per l’Anno europeo contro le discriminazioni che vede i rappresentanti dei Ministeri delle Attività produttive, del Lavoro e della Previdenza sociale, e delle Pari opportunità, appunto, impegnati in varie iniziative e svariati convegni in giro per le capitali europee.
La Commissione scrive: «La differenza tra i redditi degli uomini e delle donne è imputabile a più fattori, segnatamente: alla segregazione verticale e orizzontale degli impieghi occupati dalle donne e dagli uomini (dove le mansioni cosiddette femminili sono ancora meno retribuite); ai numerosi settori di attività a predominanza maschile che beneficiano di retribuzioni supplementari (straordinari, supplementi ad personam, premi di produttività, eccetera) che ampliano il divario rispetto alle retribuzioni base; alle principali differenziazioni nelle retribuzioni risultanti da contratti collettivi connessi con il riconoscimento delle competenza, con il tipo di impresa e con il settore industriale… La segregazione professionale basata sul sesso si applica a ciascuno di questi comparti moltiplicando il divario; e infine è dovuto ai sistemi contrattuali collettivi che consentono alle strutture salariali di riflettere la forza contrattuale relativa ai vari gruppi di lavoratori dipendenti… dove le donne in genere sono dotate di un potere contrattuale più debole».
La colpa, o la responsabilità, di un tale gravissimo e diffuso atto di discriminazione – di segregazione, dice la Commissione europea – è dunque di tutti: delle aziende e dei sindacati. Comincia dai percorsi di carriera, dalle scelte fiduciarie dei capi, dalle pratiche di formazione e di supporto professionale che in Italia vengono in larga misura misconosciute e disattese nelle aziende, ma anche dimenticate o sottovalutate “griglie forti” della normativa contrattuale.
Per non parlare di quello che succede tra i lavoratori e le lavoratrici precarie: quelli dei call center, della scuola, della sanità, del pubblico impiego. Altro che percorsi di carriera!
Per le donne la carriera viene stoppata quasi subito: se ti sposi, se resti incinta, quando nasce il bambino, quando deve essere assistito, e così via per il resto di tutta la vita segnata (eccome) dal lavoro di cura e di assistenza famigliare. Seppure qualche compagno di lavoro prontamente non ti ricorda: Hai voluto la bicicletta? Adesso pedala!
Fatto sta che le donne europee guadagnano in media il 16% in meno degli uomini; che contro il 31% dei maschi che supera i 1.500 euro al mese soltanto il 19% delle donne raggiunge quella soglia retributiva; che in Italia il 25% delle donne del Sud e il 15% delle donne del Nord rinuncia (è costretta a rinunciare) al lavoro dopo la nascita del primo figlio; e che di queste mentre il 24% si dimette “volontariamente” «per orari e tempi inconciliabili con la cura dei figli», nel 5,6% dei casi viene proprio licenziata dall’azienda.
E poi: mobbing, emarginazione, mansioni dequalificate o declassate, carriera preclusa: in Italia solo il 18% dei posti di vertice è occupato da una donna. E d’altra parte basta andare a contare chi e quanti sono i capi nei giornali, nelle università, nei ministeri, nelle posizioni dominanti della Pubblica amministrazione e ai vertici delle imprese private.
In una recente intervista l’ex presidente dei Giovani industriali Anna Maria Artoni ha detto, non a caso: «Essere preparate non basta; arriva solo chi ha il coltello tra i denti». La vicepresidente di Confindustria parla esplicitamente di «fatica se si vuole conciliare lavoro e famiglia», senza nessuno che ti dia un supporto. E comunque, alla fine, arriva quasi sempre la rinuncia, dai livelli più bassi della scala professionale fino ai più alti, persino tra le eredi delle grandi imprese famigliari. Con appena l’1,6% di donne nei consigli di amministrazione: «Uno scenario desolante», secondo Artoni.
Ci sono persino realtà in cui le ragazze all’atto dell’assunzione devono firmare un accordo – del tutto illegale – in cui si impegnano a dimettersi in caso di matrimonio o di maternità. E ciò in una realtà quale quella italiana in cui lavora solo il 45% delle donne contro il 70% degli uomini, per fermarsi al solo dato della media nazionale, ché se si vanno a guardare le percentuali locali, sulle condizioni di lavoro femminile in talune regioni del Sud, viene da piangere. E ciò a prescindere dai livelli di istruzione e di professionalizzazione che vedono le donne, nonostante tutte le condizioni avverse e l’impervia probabilità che queste possano cambiare nel prossimo futuro, eccellere in quasi tutti i campi, soprattutto nei più innovativi, dalla ricerca alle tecnologie.
E non ci consoliamo neppure pensando che non va meglio neanche negli Stati Uniti, dove di recente un milione e mezzo di donne impiegate nella più grande catena commerciale a stelle e strisce, i 100 negozi distribuiti in 30 Stati della Wal-Mart, hanno deciso di intraprendere una “class action”, un’azione collettiva, rivolgendosi alla giustizia americana per chiedere «salari equi e pari dignità», accusando la proprietà di «cultura aziendale maschilista» e affermando di essere «lavoratrici di seconda classe, sfruttate e discriminate».