«Italia, tiraci fuori da qui»

«Per favore fate pressioni sul governo italiano e sulla nostra compagnia perché ottengano la nostra liberazione al più presto». La voce di Franco Arena arriva distante dalla linea telefonica, disturbata da alcuni fischi sullo sfondo. Ma alla fine il suo appello – ripetuto diverse volte – si sente chiaramente: «Dite alla nostra compagnia di darsi una mossa».
Ieri sera, intorno alle 23, il manifesto ha potuto parlare con i quattro tecnici dell’Agip-Eni – i tre italiani Franco Arena, Roberto Dieghi, Cosma Russo e il libanese Imad Saliba – tenuti in ostaggio dal 7 dicembre scorso dai ribelli del Movement for the Emancipation of Niger Delta (Mend). In quella che il portavoce del Mend, Jomo Gbomo, ha definito «l’ultima telefonata per quest’anno», i quattro hanno voluto rassicurare le proprie famiglie e al contempo esprimere la propria preoccupazione per il prolungarsi del sequestro.
In una conversazione durata circa un quarto d’ora – nel corso della quale la linea è caduta diverse volte e diverse volte è stata ripresa – i quattro ostaggi hanno ripetuto la stessa identica frase: «Fate tutto il possibile affinché ci tirino fuori di qua. Siamo stanchi». Tutti e quattro hanno esortato l’Agip-Eni e il governo italiano a darsi una mossa e a tirarli fuori da lì. «Sono 18 giorni che siamo qua, se le cose vanno per le lunghe potrebbe anche succedere qualcosa», ha detto Roberto Dieghi. Anche Imad Saliba – il cittadino libanese – ha chiesto di contattare il suo governo e la sua famiglia. «Per favore, fatto tutto quanto è in vostro potere per rendere il più rapido possibile il nostro rilascio», ha detto.
Gli ostaggi hanno tutti affermato di essere trattati benissimo. «I rapitori sono persone squisite, è come stare in un hotel a cinque stelle», ha raccontato addirittura Arena. Ma allo stesso tempo affermano di essere tenuti tagliati fuori dal mondo, di non avere alcuna comunicazione con l’esterno. «Ci hanno fatto la concessione di portarci qui per fare questa telefonata», ha continuato Arena. Quanto al luogo dove sono detenuti, «siamo in mezzo alla giungla», ha detto Cosma Russo.
Il più anziano dei quattro – il 64enne Roberto Dieghi, contrattista della Nigeria Agip Oil Company – ha lamentato solo un po’ di mal di schiena e ha detto che, nel giro di quattro giorni, avrebbe esaurito le pillole per l’alta pressione. Ma per il resto, anche lui ha voluto mandare un augurio di buon Natale alla sua famiglia e ha voluto rassicurarli sul suo stato di salute.
Il più loquace dei quattro è stato Franco Arena, il manager della Swamp area presa d’assalto il 7 dicembre al momento della cattura. Il 52enne tecnico di Gela ha voluto infatti ripetere a più riprese la sua esortazione al governo italiano e all’Agip.
Tutti e quattro gli ostaggi hanno detto di non saper nulla di trattative in corso e, anzi, hanno chiesto notizie su eventuali negoziati in corso per la loro liberazione. Il ministero degli esteri, contattato dopo la telefonata, ha detto testualmente: «Stiamo lavorando, da parte della Farnesina e dall’Agip. La priorità è la loro sicurezza. Ma ci troviamo in una fase estremamente delicata».
I quattro hanno detto di essere rimasti tutti i giorni del loro sequestro «nello stesso posto nella giungla». «Ci hanno portati qua solo per telefonare perché nel posto dove ci troviamo non c’è campo», ha sottolineato Dieghi.
È in questo nascondiglio segreto che l’altroieri i quattro sono stati raggiunti da un giornalista nigeriano. Sunny Ofili, direttore giornale on-line The Times of Nigeria, ha potuto incontrare i quattro per qualche ora e parlare con loro. Li ha trovati in buona salute, ma stanchi e con la barba lunga di giorni. Il gionalista non li ha trovati particolarmente impauriti – addirittura ha raccontato che uno dei rapitori scherzava con Dieghi, chiamandolo «Sir Roberto». Li ha tuttavia descritti provati dall’esperienza della cattività, dal fatto di dormire per terra e di mangiare solo riso e spaghetti. Probabilmente, ha aggiunto, i quattro soffrono per le difficili condizioni climatiche e ambientali della prigionia. «Il luogo dove li tengono è a circa un’ora di barca da Port Harcourt – racconta ancora Ofili – nel mezzo della foresta di mangrovie. È un posto molto umido e abbastanza insalubre».