Italia stile somalo

Due «partiti» sembrano fronteggiarsi: quello favorevole e quello
contrario alla permanenza dei nostri soldati in Iraq. Sembrano.
Perché il «Triciclo» nemmeno stavolta chiede il ritiro delle truppe
italiane. Entrambi però si sbracciano nella solidarietà ai nostri
soldati. Per l’uccisione di 15 iracheni da parte delle forze armate
italiane – criminale quanto esplicita violazione dell’articolo 11 della

Costituzione – solo, e all’ultimo momento, qualche subordinata,
tardiva solidarietà «anche» alle famiglie dei caduti iracheni.
Emblematico poi è il modo con cui Il Corriere della Sera online ha
dato ieri la notizia: «Nassiriya: scontri con sciiti, 11 bersaglieri
feriti
in modo non grave . Quindici miliziani di Sadr uccisi». Nello
stesso articolo, a margine, si riportava però che, tra i «miliziani»
uccisi ci sono anche «due bambini e una donna». Niente di nuovo
sul fronte occidentale. Nel 1993 così Il Corriere della Sera riportava
le notizie di uccisioni di somali da parte dei soldati italiani:
«Mogadiscio, gli italiani sparano: uomini del San Marco e
carabinieri della Folgore hanno intercettato un gruppo di rapinatori»
(3-1-93); «Gli italiani sparano, uccisi 4 somali: i nostri incursori
attaccati» (28-2-93). Caddero, in verità, al famoso ceck-point
Pasta, decine e decine di civili che protestavano lanciando sassi
contro i soldati italiani, donne e bambini falciati dal tiro incrociato

dei «nostri» mitragliatori. Fu il battesimo del «Nuovo modello di
difesa». Ora l’Iraq, come la Somalia.

La mutazione genetica delle forze armate italiane era appena
iniziata: nell’ottobre 1991 – subito dopo la prima guerra del Golfo, la
prima a cui aveva partecipato la Repubblica italiana. Il governo
Andreotti aveva varato, sulla scia del riorientamento strategico Usa,
il rapporto Modello di difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA.
negli anni `90 : vi si stabiliva che compito delle forze armate italiane

non è più solo la difesa della patria (art. 52 della Costituzione), ma
la «tutela degli interessi nazionali ovunque sia necessario».
Faceva la comparsa per la prima volta il criterio degli «interventi
militari per la gestione delle crisi» ovunque siano toccati gli
«interessi vitali» del paese. Una volta varato, il Nuovo modello di
difesa è passato di mano in mano, da un governo all’altro, dalla
prima alla seconda repubblica, con un sostanziale, profondo,
appoggio «bipartisan».

Nel 1995, durante il governo Dini, lo stato maggiore della difesa
affermava che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto
ambito militare per assurgere anche a misura dello status e del
ruolo del paese nel contesto internazionale». Nel 1996, durante il
governo Prodi, nella 47a sessione del Centro alti studi della difesa
il generale Angioni affermava: «La politica della difesa diventa uno
strumento della politica della sicurezza e, quindi, della politica
estera». Nel 1999 – dopo che il governo D’Alema aveva fatto
partecipare l’Italia, sotto il comando Usa, alla guerra Nato contro la
mini-Jugoslavia – la marina militare annunciava che l’Italia era
riuscita ad «affermare il suo ruolo di media potenza regionale» nel
«Mediterraneo allargato: spazio geopolitico comprendente […] il
Golfo Persico che, attraverso lo Stretto di Hormuz, è intimamente
collegato al sistema mediterraneo di rifornimenti energetici».

Così è stata rilanciata, contro la nostra Costituzione, una politica di
stampo coloniale che porta oggi le nostre forze armate, sotto
comando Usa, a occupare un paese e a reprimere nel sangue la
ribellione dei suoi abitanti.