Italia, basso costo del lavoro ma non riesce a competere

Tra i paesi europei più sviluppati, l’Italia è quello con il costo del lavoro più basso e, al tempo stesso, quello meno competitivo, avendo fatto registrare nel 2005 una crescita dell’economia vicinissima allo zero (maglia nera della zona euro) mentre per l’anno in corso le ultime stime di Bankitalia indicano un rialzo del Pil di poco superiore all’1%. Nel frattempo la bilancia commerciale – il saldo tra importazioni e esportazioni – ha segnato a gennaio un passivo di 4.162 milioni di euro (il peggiore da almeno il 1991).
Inevitabili i riflessi negativi sull’occupazione, come testimoniano anche gli ultimi dati dell’Istat, apparentemente positivi ma solo perché su di essi prosegue l’effetto “dopante” da un lato delle regolarizzazioni dei lavoratori stranieri (effettuate nel 2002 ma certificate dalle anagrafi solo adesso) e, dall’altro, del lavoro precario e del part time. Sulla carta, gli occupati nel 2005 rispetto al 2004 sarebbero aumentati di 158mila unità. In realtà, precisa la Cgil sono stati persi «ulteriori 90mila posti di lavoro», che vanno ad aggiungersi a quelli persi negli anni precedenti «per un totale che si aggira intorno alle 200mila unità».

La conferma del fallimento delle politiche per lo sviluppo portate avanti dal governo Berlusconi – con l’appoggio dei settori più retrivi del padronato – arriva da uno studio sulle nazioni dove è più conveniente avviare un’attività imprenditoriale, condotto dalla società di revisione statunitense Kpmg. L’indagine ha messo a confronto nove paesi – tra Nord America, Europa e Asia – intrecciando diverse variabili come l’imposizione fiscale, il costo del lavoro, i costi energetici, dei trasporti e dei terreni. Ne è venuta fuori una graduatoria nella quale l’Italia figura al quinto posto, dopo Singapore, Canada, Francia e Olanda. Non solo: il Belpaese, sempre secondo gli esperti di Kpmg, conquista il primo posto fra le nazioni europee per il costo totale del lavoro (salari, stipendi e programmi di assistenza a carico del datore di lavoro) più basso. In questa particolare classifica, l’Italia strappa la terza piazza del podio, collocandosi dietro a Singapore e Canada. La Germania risulta invece la nazione dove i costi d’impresa sono più elevati. Malgrado ciò, nel 2005 i tedeschi hanno visto il loro Pil crescere più di quello italiano (+0,9%), mentre per il 2006 si prevede un pareggio. Come mai?

Semplice, la via della competizione basata sui bassi costi di produzione da noi non ha funzionato, come era del resto prevedibile. Invece di investire in tecnologia per migliorare la qualità dei loro prodotti, gli industriali italiani si sono preoccupati di ridurre i salari. Buona parte dei capitali sono stati distolti da attività produttive per condurre operazioni finanziare. E questi sono i risultati. Per invertire la rotta, sarebbe stato necessario un intervento attivo del governo, capace di fornire indirizzi, tutelare settori strategici, stimolare investimenti. E tutto questo non c’è stato.

A pagarne il prezzo sono i giovani (un contratto su due oggi è precario, dice la Banca d’Italia), le donne e chi vive nel Mezzogiorno. Sono 20mila i posti di lavoro persi nel 2005 al Sud, dove si registra un tasso di disoccupazione «superiore di tre volte – informa l’Istat – a quello del centro-nord». Difficoltà testimoniate dal fatto che cresce, per il secondo anno consecutivo, il numero delle persone che rinunciano a cercare lavoro. Questo spiega perché ufficialmente il tasso di disoccupazione è sceso al 7,7% dall’8% del 2004. Bisogna inoltre distinguere tra buona occupazione e cattiva occupazione. Qualche settimana fa l’Istat aveva segnalato una perdita di 102mila unità di lavoro a tempo pieno rispetto all’anno precedente. Il fatto che il tasso di occupazione della popolazione tra i 15 e i 64 anni risulti fermo sui dati del 2004, si spiega perciò con la «forte crescita» del part time (+1,9%) sottolineata anche dalla Banca d’Italia nel suo ultimo bollettino. In pratica, è come se, al posto di una persona che faceva 8 ore di lavoro, oggi ce ne fossero due che ne fanno quattro.

Fuori luogo, pertanto l’ottimismo del governo: «Nonostante la crescita zero del 2005 – esulta il sottosegretario al Welfare Maurizio Sacconi – l’occupazione è cresciuta e la disoccupazione è diminuita». Analisi non condivisa dalla Cgil, che denuncia le politiche sbagliate del centrodestra e chiede «una svolta» basata sulla centralità del contratto a tempo indeterminato. «Il vero indicatore della situazione – ribatte Fulvio Fammoni, segretario confederale e responsabile del Mercato del lavoro – è rappresentato dal fatto che il tasso di occupazione non cresce e, al netto delle regolarizzazioni, cala». Inoltre, «il numero delle ore lavorate è fortemente calato perché ormai la maggioranza delle assunzioni avviene con forme di lavoro precario e grazie a questa frantumazione del lavoro si realizza un improprio scambio fra lavoro instabile e sottosalario. Il che – osserva Fammoni – è ulteriormente confermato dal dato del monte salari, che non si incrementa come dovrebbe se aumentasse la quantità di ore lavorate».