ISTANBUL
Inerte, gli occhi azzurri e lo sguardo fisso sotto il fazzoletto rosso che le cinge la fronte, Senay Hanoglu non sembra reagire quando i suoi due figli – 9 e 11 anni – si arrampicano sul lettino in cui giace. La figlia Pinar accarezza con tenerezza la mano della madre, ormai alla soglia della morte. «Abbiamo deciso di riprodurre all’esterno l’azione dei carcerati, affinchè il mondo possa vedere come si muore in prigione», spiega accanto a lei Fatma Sener, militante di 22 anni che ha cessato di alimentarsi al tempo stesso di Senay. La carnagione giallastra e le palpebre pesanti, Fatma è una dei cinque scioperanti della fame raggruppati per «vivere con dignità o morire» in questa povera casa d’ISTANBUL. Da alcuni mesi centinaia di detenuti (le cifre che si fanno variano fra 400 e 650) attuano uno sciopero della fame nelle carceri turche per protestare contro i nuovi penitenziari detti di «tipo F», dove i prigionieri politici sono tenuti in isolamento e, affermano le organizzazioni per i diritti umani, frequentemente maltrattati. Dal 12 marzo lo sciopero è costato la vita a 14 persone (ora sono 16, 13 detenuti e 3 loro parenti; ndr) e altre decine sono in condizioni critiche. Centinaia di carcerati aderiscono in modo intermittente allo sciopero, con pause di una settimana dopo 45 giorni senza cibo. Nel dicembre 2000 le autorità avevano dato l’assalto a venti prigioni per snidare i carcerati dai dormitori per 80-100 persone e trasferirli nelle piccole celle di alcuni nuovi penitenziari. Il ministero della Giustizia aveva allora spiegato che l’operazione avrebbe permesso alle autorità di riprendere il controllo dell’universo carcerario dove i moti erano frequenti e dove le organizzazioni politiche dettavano legge. L’operazione – il «massacro», come lo definiscono i militanti e i loro parenti – aveva provocato la morte di trenta detenuti e due militari. Da allora, afferma l’associazione turca dei diritti dell’uomo, i prigionieri sono tenuti in isolamento quasi totale. Soli nella loro cella; ma non per questo rinunciano al digiuno. In questa abitazione modesta, decorata di ritratti dei «martiri», l’attività è intensa. Parenti, amici, sostenitori e giornalisti sono tutti venuti ad assistere a questa morte in diretta, a questa lenta agonia che si prolunga, apparentemente senza che le autorità si convincano ad aprire il dialogo. Fra queste mura due scioperanti della fame, che avevano parenti prossimi in carcere, sono recentemente morti. La foto di Canan Kulaksiz, deceduta il 15 aprile, è appesa sul letto di sua sorella Zehra, studentessa di 23 anni, scioperante anche lei, il cui volto è sorridente benchè non sia neppure più in grado di alzarsi. Nella stanza accanto il padre Ahmet esprime collera e delusione. «Quando le autorità affermano che tocca alle famiglie convincere i loro cari a porre termine a quest’azione, ci dipingono come infanticidi. Ho già perso una figlia, ora rischio di perdere l’altra». La voce si rompe, è in lacrime. «Abbiamo tentato di tutto per dissuaderli, ma le mie figlie hanno preso una decisione che devo rispettare». «E’ spiacevole che ci siano volute delle morti perchè il mondo ci ascolti. Le nostre richieste sono molto semplici: la fine incondizionata del regime d’isolamento nelle carceri, un negoziato diretto senza mediatori fra lo Stato e i rappresentanti dei carcerati», spiega Resit Sari, che ha cominciato il suo digiuno nel dicembre 2000, una settimana dopo la scarcerazione al termine di una reclusione durata 21 mesi, accusato di essere membro di un’organizzazione rivoluzionaria di sinistra.
(Copyright Le Monde)