Israele scopre con orrore i nazisti nel cortile di casa

Il capo, Eli Buanitov, esce dal tribunale di Ramle, venti chilometri da Tel Aviv, con la maglietta verde tirata sul capo per evitare i fotografi. Sull’avambraccio destro ha tatuata una grossa svastica e la scritta in caratteri gotici «white power», potere bianco. Gli altri sette lo seguono, il volto nascosto come lui, t-shirt, bermuda, sne-akers. Eli, conosciuto come «Nazi Eli», ha diciannove anni, gli amici qualche mese di meno. Tre sono minorenni. Provengono tutti da famiglie immigrate dalla Russia o dalle Repubbliche ex sovietiche, la madre colf, il padre addetto alla sicurezza davanti a un locale notturno. Sono stati arrestati ieri mattina a Peta-ch Tikva con l’accusa di razzismo e violenza. È la prima vera cellula neonazista scoperta in Israele: da venti-quattr’ore i tg mandano a ripetizione il video che li filma mentre salutano con il braccio teso e prendono a calci un immigrato asiatico, un anziano rabbino con la kippà, un omosessuale. Il Paese, muto, guarda questi figli perduti, la caricatuta grottesca della memoria che non passa.
«Finora c’erano stati solo casi isolati» spiega il portavoce della polizia Shlomi Sa-giv. Teenagers in rivolta contro «il pensiero debole dell’Olocausto», nostalgici di Hitler tanto per «épater le bur-geois», scandalizzare il borghese, fanatici di band nazi-punk tedesche tipo i Land-ser, i Reich War. Stavolta è diverso, c’è un’organizzazione seppur ristretta, ci sono le aggressioni, c’è una rete che attraverso Internet rispolvera falsi miti e odi reali. Gli otto di Petach Tikva («porta della speranza») in ebraico chiamano in causa i genitori, l’educazione, i valori. Ma non solo. «Abbiamo fallito come società», commenta il premier Olmert alla Knesset.
La mamma di Y., minorenne, «responsabile» della propaganda online, l’unico ebreo del gruppo, nasconde lo sguardo dietro gli occhiali da sole. Bionda, alta, si tormenta le mani con le unghie laccate: «Siamo arrivati dalla Russia otto anni fa, mia suocera è sopravvissuta al campo di sterminio…». Anche il nonno del capobanda, «Nazi Eli», era ebreo, lui no. Come gli altri, è arrivato dall’ex Unione Sovietica grazie alla Legge del Ritorno che assicura la cittadinanza israeliana a chiunque vanti una goccia di sangue ebraico nelle ultime due generazioni. Eli però non si è sentito accettato, urla la madre ai cronisti: «L’hanno discriminato. Ha smesso di andare a scuola perché gli arabi lo picchiavano e la polizia non interveniva. Non è un nazista».
Eli e gli altri festeggiavano il compleanno del Fuhrer. Come password del computer avevano scelto il numero 88, l’ottava lettera dell’alfabeto che raddoppiata sta per HH, Heil Hitler. La polizia ha cominciato a seguirli un anno fa, si «divertivano» a disegnare svastiche sui muri della sinagoga di Petach Tikva. L’avvocato Yeuda Frid sostiene che sarà difficile incriminarli, Israele, unico tra i Paesi occidentali, non ha una legge specifica contro il neonazismo.
«Inseriremo il nuovo reato e sarà punito severamente» annuncia il ministro degli Affari speciali Avigdor Lieberman. Domani il giudice di Ramle deciderà la sorte degli otto. Yaakov Edri, responsabile dell’immigrazione minimizza: «è un fenomeno marginale». La maggior parte degli adolescenti russi «sono integrati, fanno il servizio militare». Loro, i ragazzi, si difendono dicendo che magari hanno esagerato, che i tatuaggi con la svastica in fondo non significano nulla.
Una giustificazione debole dovunque, impossibile qui.