Israele si prepara ad un espansione delle operazioni militari nella Striscia di Gaza in cui è previsto, secondo le parole del premier israeliano Olmert di non porre «alcun freno» all’operato delle forze armate dello Stato ebraico, al fine di evitare uno scenario “libanese”, come ha ripetuto ieri il ministro della Difesa israeliano Amir Peretz. Hamas risponde di essere pronta a reagire ad un attacco di vasta scala su Gaza promettendo, in risposta, di infliggere una «dura lezione a Israele» e dichiarandosi in possesso «dei mezzi e delle armi necessari per far fronte al nemico». Il movimento islamico incaricato del governo nei territori palestinesi ha inoltre messo in guardia il presidente Abbas dal creare, grazie a finanziamenti statunitensi una nuova forza di polizia allo scopo di contrastare le milizie legate ad Hamas. Il principale movimento religioso palestinese è però contemporaneamente intenzionato ad ampliare i ranghi della cosiddetta «forza ausiliaria» che risponde agli ordini del ministero degli Interni Said Siyam, creata lo scorso aprile.
Non si placa dunque la tensione tra Hamas e Fatah (domenica si sono registrate faide tra miliziani legati ad Hamas e forze fedeli alla presidenza Beit Lahiya, a nord di Gaza), mentre nel corso degli ultimi giorni il numero di palestinesi uccisi durante le incursioni dell’esercito israeliano (Idf) a Gaza è salito a 28, (di cui un bambino di 10 anni, uno di 14 ed una donna, madre di 5 figli di 29 anni). Contemporaneamente alle incursioni su Gaza delle scorse ore è saltata fuori la notizia (diffusa dall’agenzia Reuters e ripresa dalla stampa israeliana) di un finanziamento pari a 42 milioni di dollari Usa destinato a gruppi palestinesi «non implicati in attività terroristiche», ovvero a garantire aiuti a forze alternative ad Hamas. «Il progetto sostiene l’obiettivo di creare alternative democratiche alle opzioni politiche islamiste radicali o autoritarie» è scritto in un passaggio dei documenti. Fondi da destinare a programmi di “formazione strategica” gestiti da istituzioni legate al governo americano come il National democratic institute (Ndi) o l’International republican institute. «Non si tratta di nulla di nuovo» ha affermato rispondendo a domande sulla questione il Console Generale americano a Gerusalemme Jacob Walles, aggiungendo che gli Stati Uniti hanno gestito per anni progetti nella West Bank e a Gaza volti a promuovere lo sviluppo di partiti politici ed organizzazioni della società civile.
Ecco il paniere della merenda toccata in queste ore ai palestinesi, che, analizzando i fatti, potrebbe rivelarsi l’antipasto di bocconi, se possibile, anche più amari. Vediamo perché. Da una parte ieri Peretz ha dichiarato alla Knesset di non avere intenzione di permettere che la Striscia si trasformi in un nuovo Libano meridionale (pensando forse anche alle conseguenze per la propria vicenda personale), ma che nessuno «è desideroso di compiere un’operazione di terra in profondità». Eppure venerdì scorso dalle frequenze dell’emittente televisiva israeliana Canale 10 si è dibattuto sulla prospettiva di una rioccupazione di Gaza.
Per analisti, Generali ed uomini dei servizi di sicurezza israeliani, tenuto conto dei rapporti di intelligence relativi al traffico di armi verso la Striscia ed alle conseguenze della visita in Iran del ministro degli Interni di Hamas Said Siam, rioccupare la striscia di terra palestinese affacciata sul mediterraneo costituirebbe l’unico deterrente alla minaccia costituita dalle milizie palestinesi verso Israele. Ma non se ne parla ancora apertamente. Un alto dirigente del ministero della Difesa israeliana, Amos Gilad, in un’intervista alla radio delle forze armate ha dichiarato, interrogato sulla questione, che «il buon senso e l’esperienza ci hanno insegnato a non affrontare in pubblico domande di questo tipo per non pregiudicare l’effetto sorpresa». Il funzionario della difesa ha spiegato che l’obiettivo di Israele è duplice: arrestare i lanci di razzi e l’afflusso crescente di armi di ogni genere, come razzi anticarro e antiaerei come quelli usati contro Israele dagli Hezbollah in Libano, che, secondo l’intelligence israeliana sono contrabbandati nella Striscia.
La campagna militare israeliana su Gaza che, a giudicare dagli annunci di queste ore, sta per entrare in una fase ulteriore, ha dalla fine di giugno, ovvero dal rapimento del soldato israeliano Shalit, provocato a parte la morte di 350 palestinesi, la distruzione massiccia di infrastrutture civili e di qualche tunnel sotterraneo, non ha né riportato né alla liberazione del militare, né ha posto un freno al lancio di razzi Qassam. Proprio come accaduto per i Katiusha lanciati da Hezbollah. Per Israele l’Iran starebbe ricreando a Gaza una situazione analoga a quella del sud Libano, trasformando le milizie islamiche palestinesi di Gaza a qualcosa di simile agli Hezbollah. Questo sulla base di un accordo che il ministro dell’interno palestinese Said Siyam avrebbe siglato col suo omologo iraniano Mustafa Pour Mohammad il 12 ottobre scorso a Teheran che, secondo fonti di intelligence israeliana, impegnerebbe l’Iran ad armare e addestrare una forza di rapido impiego di 6.500 miliziani di Hamas.
Ieri, all’apertura della sessione invernale della Knesset, Il premier israeliano Olmert ha dichiarato di essere pronto a un immediato incontro col presidente palestinese Abu Mazen, definito «partner legittimo», per discutere su come procedere per la realizzazione della “road map”. Ma non è chiaro come la carta della diplomazia possa coniugarsi con la prospettiva di una offensiva militare di scala ancora maggiore, di cui, in un territorio sovrappopolato come quello della Striscia di Gaza, sarebbero i civili a pagare il prezzo più alto.