Irrealpolitik . Italia in guerra.

Siamo entrati in una guerra che si fa in nome della lotta al terrorismo internazionale. Tra gli alleati in questa guerra ci sono tre paesi che hanno riconosciuto ufficialmente (unici al mondo) il regime dei taliban: Pakistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi. Non solo: almeno due di essi (Pakistan e Arabia Saudita) hanno organizzato, finanziato, istruito e armato il movimento dei taleban e lo hanno portato al potere. E ce lo hanno tenuto dal 1996 al 2001, ben sapendo che ospitava tutti i terrorismi islamici del mondo. Ma non bombardiamo quei paesi.
Tony Blair e George Bush hanno promesso al generale-presidente Musharraf che, in cambio delle basi per i loro aerei, garantiranno al Pakistan voce in capitolo nel futuro governo dell’Afghanistan. Cioè hanno garantito che qualcuno dei taliban più “presentabili” troverà posto nel futuro governo di Kabul.
All’inizio dei bombardamenti sull’Afghanistan il problema (è stato detto per motivarli) era l’Afghanistan. A un mese distanza, 2500 missioni di bombardamento dopo, il problema si è ingigantito. Ora comprende anche il Pakistan: 140 milioni di persone, una guerra endemica con l’India, un miliardo di abitanti, bombe atomiche nell’arsenale. Ai confini tra Pakistan e Afghanistan almeno diecimila uomini armati sono pronti a entrare in guerra a fianco dei taliban. E i loro kalashnikov possono, da un momento all’altro, rivolgersi sia contro le truppe della “Grande Alleanza”, sia contro il generale Musharraf. Il pericolo è tale che gli Stati Uniti hanno già messo in stato di allerta una brigata speciale che dovrebbe controllare (dovrebbe, ma ce la farebbe?) i depositi nucleari pakistani.
Ci si aspettava un crollo del regime dei taliban. Non c’è stato. Ci si aspettava una rivolta delle popolazioni contro il regime dei taliban: non c’è stata.

Si doveva catturare o uccidere Osama bin Laden. Che è vivo e vegeto ed è divenuto nel frattempo la bandiera di tutto l’islamismo fondamentalista del mondo. Non un solo ministro del governo dei taliban risulta arrestato o ucciso, né lo è il mullah Omar.

Si dirà che è ancora presto: pazientare. Ma i responsabili americani (quelli che prendono le decisioni) ci fanno sapere (per la verità alternando valutazioni diverse e perfino opposte l’una all’altra) che questa guerra “durerà anni” (Rumsfeld), durerà mesi (Rumsfeld), durerà tanto “che questa generazione non ne vedrà la fine” (Cheney). Per quale di queste varianti ha votato la stragrande maggioranza del parlamento italiano?

E di quale guerra si tratta? E’ la guerra contro l’Afghanistan? Oppure e una carta bianca dove i dirigenti di Washington scriveranno, volta a volta, gli obiettivi che avranno individuato, in ogni parte del mondo? Cosa, del resto, certa, poiché essi hanno già annunciato che si colpirà dovunque. E poiché non sarebbe credibile ritenere che il terrorismo è solo Afghanistan e solo bin Laden, ne consegue che si pianificano bombardamenti su tutti gli altri “stati carogna” di religione islamica: Irak, Sudan, Yemen del Sud, Iran, Indonesia e via via individuando.
Dunque siamo entrati in una guerra contro un gruppo di stati senza averne l’elenco. Siamo entrati in una guerra che non soltanto non si sa quanto potrà durare, ma senza neppure un criterio per definire la vittoria.

Mentre i deputati italiani votavano per la guerra, il Pentagono si accingeva e rivedere le sue strategie. Poiché è evidente anche a loro che quella iniziale si è rivelata sbagliata, approssimativa, superficiale. La guerra continuerà, ma su coordinate che ancora non conosciamo. Al Pentagono non hanno ancora deciso se scendere sul terreno, in quanti scendere, dove e come. Adesso – dopo i primi loro morti (che non sapremo mai quanti sono) – si rendono conto che forse non hanno abbastanza “intelligence”. L’Afghanistan è una bestia difficile. Si poteva chiedere informazioni ai russi.

Siamo entrati in una guerra dove non esistono limitazioni di armi e di criteri di condotta. E se non si riuscisse a trovare e uccidere Osama bin Laden con tutto l’armamentario bellico fin’ora dispiegato, siamo pronti ad accettare l’impiego di bombe atomiche? La domanda non è peregrina o teorica perché il problema sta sul tappeto. E sta sul tappeto perché non si è stabilito su quali confini fermarsi. Immagino che i nostri deputati faranno fatica ad accettare quella svolta, quando divenisse parte dell’ordine del giorno, ma finiranno per accettarla. Infatti hanno già accettato il criterio che, per colpire il criminale, si può abbattere il palazzo in cui vive, anche se centinaia di altri inquilini innocenti vi perderanno la vita.

Siamo entrati in guerra illudendoci (e illudendo le nostre opinioni pubbliche) sull’esistenza di una “Grande Alleanza”, che comprenderebbe perfino la Russia e la Cina. Ma a Shanghai nel documento finale non c’è stato il minimo cenno a questa “Alleanza”. La Cina sta a guardare, esprimendo solidarietà mentre la fine annunciata dei taliban taglia l’ossigeno ai terroristi della minoranza islamica degli uiguri. La Russia di Putin si dichiara amica e solidale, ma esclude di partecipare con i suoi uomini, non concede spazi aerei per azioni militari, invita a non pensare che la lotta al terrorismo possa essere risolta solo con metodi militari, infine raccoglie il silenzio definitivo dell’occidente sulla Cecenia.

Siamo entrati in guerra con l’implicita idea che la vinceremo. E invece nessuno si è preoccupato di valutare l’ipotesi che si possa perderla. Con questa scelta della guerra per combattere il terrorismo, noi stiamo mobilitando un esercito di kamikaze che diverrà massa critica molto più velocemente di quanto immaginiamo, se è vero che, dieci giorni fa, a Peshawar, Pakistan, in un solo giorno, 500 giovani (non afghani ma pakistani) hanno messo la loro vita a disposizione della jihad. Così diventeremo tutti, senza volerlo, dei kamikaze, perché la guerra arriverà nelle nostre case, nei nostri autobus, nei nostri parchi. E non sarà possibile vincerla, paradossalmente, proprio perché noi siamo attrezzati a combattere per il successo, per il denaro, per il benessere. Lo abbiamo ormai nei nostri cromosomi; ci hanno imbottito la testa con l’idea di essere belli, vivi e vincenti. Per questo non possiamo nemmeno tentare di capire chi non ha mai vinto, ed è così certo della sua inesorabile sconfitta da avere maturato abbastanza odio da dedicare la sua esistenza alla morte. A uccidersi per annientare coloro che ritiene nemici e responsabili della sua condizione.

Non c’è difesa contro questo esercito di perdenti. O, meglio, ne avremmo una sola: cominciare a mostrare loro che noi siamo capaci di costruire un mondo migliore di quello che conoscono. Ma questa è l’unica cosa che l’Occidente non ha detto e non si accinge a fare. Dicono, quelli che sono entrati in guerra, che non c’era alternativa. Cosa potevamo fare? Potevamo lasciare impuniti i criminali? Ma è una bugia. Così non si combatte il terrorismo e non si puniscono i responsabili. Così si moltiplicano i nemici dell’occidente lasciando intatti i santuari del terrorismo, che sono molto più vicini alle nostre capitali di quanto non lo siano le grotte afghane.

Siamo entrati in guerra senza riflettere che una guerra come quella che ci veniva proposta, anzi imposta, implica che noi dovremo rinunciare a tutti i valori (libertà, diritti, informazione, prosperità ecc) in nome dei quali proclamiamo la nostra come civiltà e ne vantiamo la superiorità. C’è già chi invoca il ritorno alla tortura, ed è passato solo un mese! Con il risultato che, anche in caso di vittoria, saremmo tutti sconfitti. E’ il trionfo della irrealpolitik.