«Iraq, tutto da rifare». I saggi contro Bush

Situazione «grave e in via di peggioramento», slittamento «verso il caos», possibilità di «una catastrofe umanitaria» e soprattutto l’esito peggiore, «the global standing of the United states will be diminished»: se la guerra in Iraq continua così, l’ultima vittima sarà il superpotere della superpotenza. Sono come sassi le parole del rapporto Baker-Hamilton, co-direttori di un’istituzione bipartisan chiamata Iraq study group varata dalla Casa bianca per liberarsi delle critiche sulla gestione della guerra e diventata all’improvviso il centro della politica americana dopo la sconfitta repubblicana nelle elezioni di medio termine. Il rapporto finale dell’Iraq study group è un libro di 160 pagine che bastona con poca pietà l’avventura in Iraq, ammucchia raccomandazioni su raccomandazioni (alla fine saranno 79) e risparmia al presidente soltanto l’ultima delle umiliazioni, quella di consigliare esplicitamente la Casa Bianca che è ora di ritirarsi da Baghdad. Niente data di scadenza della guerra, secondo i saggi. Ed è a questo che Bush si aggrapperà.
James Baker III e Lee Hamilton, il vetero-con e consigliori di Bush padre soprannominato «martello di velluto» e il bipartisanissimo specialista degli esteri democratico, hanno guidato per nove mesi un organismo di dieci saggi composto col bilancino – cinque repubblicani e cinque democratici – e scelto per non avere sorprese o colpi di testa. E così è stato. Malgrado la durezza formale, il rapporto finale fa a pezzi la politica americana in Iraq ma offre al presidente più di una ciambella di salvataggio: il suo obiettivo non è affondare Bush ma la sua politica in Iraq, che forse è lo stesso ma forse no. Nelle 160 pagine del rapporto non compare mai una parola che è stata invece la chiave di ogni dichiarazione di Bush da quando partì il primo missile su Baghdad: la parola «vittoria». Questa guerra è in-vincibile, dicono i saggi. Quindi si deve cambiare.
Già dalle prime righe, Baker e Hamilton mettono in chiaro che «non c’è alcuna formula magica per risolvere i problemi dell’Iraq» ma aprono subito la porta al presidente: «Non tutte le opzioni disponibili sono state esaurite», scrivono. Nessuna critica alla guerra, nessun dietrofront sulla necessità americana di spazzar via Saddam Hussein insieme con tutti i «terroristi» al seguito. In questo senso il rapporto Baker-Hamilton non modifica assolutamente nulla della convinzione americana, anch’essa bipartisan, che la guerra era giusta e sacrosanta. Gli iracheni «sono stati liberati dall’incubo di una brutale tirannia», disgraziatamente solo per «cadere nell’incubo di una brutale violenza». Che proprio la guerra sia all’origine della brutale violenza non sfiora minimamente il più voluminoso corpus di studi e proposte sull’Iraq mai fatto dall’amministrazione americana.
Dove il bisturi affonda è nella prosecuzione della campagna militare, con tre i punti chiave. Il primo è che la missione americana «deve evolvere in una missione di supporto dell’esercito iracheno». Basta combattere direttamente, bisogna farlo per conto terzi come assistenti del nuovo stato iracheno. Con meno truppe, dislocate diversamente e sottratte all’obbligo di sostenere l’intero peso della campagna militare. Secondo, promuovere un processo di riconciliazione presso il governo iracheno: «E’ la violenza settaria il principale problema dell’Iraq», e non come dice Bush la pervicace presenza del suo nemico numero uno, Al Qaeda. Terzo, la guerra in Iraq va vista come un problema regionale e affrontata varando sforzi diplomatici nell’intera area. Questo va fatto immediatamente, «entro il 31 dicembre del 2006», attraverso la costituzione di un Iraq international support group con tutti gli stati confinanti e i paesi del Golfo interessati. Baker e Hamilton raccomandano di negoziare con l’Iran, e Bush ha sempre rifiutato qualsiasi apertura nei confronti di Tehran finché gli ayatollah non avranno capitolato sul fronte del proprio programma nucleare. Il rapporto cita due risoluzioni Onu (la 242 e la 338): restituire il Golan alla Siria, obbligare Israele a ritirarsi dai Territori occupati, risolvere la questione dei profughi, promuovere una conferenza senza condizioni siriano-libanese e palestinese… Chissà se diventerà mai politica estera.
A parte la diplomazia, l’unica data contenuta nel rapporto è il primo trimestre del 2008: entro questa data tutte le forze da combattimento «non necessarie per la protezione» dovrebbero essere fuori dall’Iraq ed essere riconvertite al puro «appoggio» all’esercito iracheno, qualsiasi cosa significhi. E’ il fatidico ritiro? «Lo è in tutto tranne che nel nome», commenta lo sconfitto sfidante di Bush alle presidenziali, John Kerry. «Ci sono andati vicino quanto è possibile andarci senza aprire un conflitto con il presidente».
Bush ha dichiarato che il rapporto Baker-Hamilton «è un giudizio molto duro», che intende «agire rapidamente», che «prenderà seriamente le proposte». James A. Baker III da piccolo era un democratico. Passa con i repubblicani a quarant’anni per militare nella campagna che nel 1970 cerca di portare al Senato, senza successo, il suo più vecchio amico: Bush padre. Nasce da quella fallita campagna elettorale l’intera vita successiva di Baker, spesa a fare il capo dello staff di Reagan, poi il suo ministro del tesoro, quindi al consiglio per la sicurezza nazionale, infine capo dello staff e segretario di stato di Bush padre. In quegli anni trova anche il tempo e i miliardi per salvare dalla bancarotta un’azienda in crisi: la Arbusto, la ditta di Bush figlio. Nel ’93 esce dalla scena governativa, fonda il James Baker Institute e si dedica al super-lobbismo: è tra i padri della coalizione della prima guerra del Golfo, entra nel consiglio d’amministrazione di diverse società (come il Carlyle group) e si arricchisce immensamente, nel 2000 è fra i protagonisti della battaglia legale in Florida che regala a Bush figlio la presidenza. E’ un vetero-con, temporaneamente accantonato dalla travolgente onda neo-con e ora riportato al centro della scena proprio dal loro fallimento. Lee H. Hamilton è un campione moderato, un cacciatore del compromesso, un professionista del bipartisan. La biografia politica dell’uomo che insieme a James Baker ha firmato il rapporto del parlamento americano sull’Iraq è quella di un oliatore professionista: figlio di un pastore metodista della Florida, 74 anni dei quali ben 34 passati alla Camera – in cui entrò poco più che trentenne al seguito di Lyndon Johnson – Hamilton entrò nell’allora Foreign affairs comittee della Camera (che oggi si chiama Comitato per le relazioni internazionali ed è il luogo in cui il parlamento americano decide la politica estera dal paese), scegliendo di restarci anche quando, anni dopo, gli venne offerta una prestigiosa candidatura al Senato. E’ conosciuto per avere rapporti particolarmente stretti con la Casa Bianca, anche quando è guidata dai repubblicani. Negli anni ’80 frenò gli attacchi democratici a Reagan durante lo scandato Iran-Contra. Si è opposto più volte a obbligare l’ex ministro della difesa Rumsfeld a deporre sotto giuramento davanti alla commissione che indagava sull’11 settembre.