Iraq, terrorismo o resistenza?

Dopo l’occupazione angloamericana dell’Iraq qualcuno ha avuto l’impressione che il movimento pacifista, dopo le oceaniche manifestazioni, si sia assopito. Indubbiamente esiste il problema – altri sottolineano – di quale sia la maniera più efficace nel contrastare i poteri forti, le strategie militariste dell’amministrazione Bush e del gruppo di multinazionali che la sostiene. Poteva essere bloccata una guerra già decisa con largo anticipo, fin dai primi momenti in cui Bush si è insediato alla guida della maggiore potenza militare del pianeta? La domanda è stata posta da Tarq Ali, scrittore e saggista anglopakistano, direttore della «New Left Review», in uno dei passaggi centrali del suo intervento alla presentazione del suo ultimo libro Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell’Iraq (Fazi Editore, pp. 224, euro 14,00), ieri sera a Roma, in un’affollatissima sala Capranichetta insieme a Giulietto Chiesa e Luciana Castellina.
E’ la storia dell’Iraq moderno, una ricostruzione che contribuisce a sgombrare il campo da molti equivoci – quando non eccessive semplificazioni – sui paesi islamici. «Un paese i cui confini – ha esordito Tariq Ali – sono stati stabiliti da un’invenzione dell’impero britannico negli anni ’20 e che dal ’58 proprio contro gli inglesi ha combattuto per la propria liberazione. Pochi sanno che l’Iraq possiede una forte tradizione culturale: la maggior parte dei più grandi poeti viventi sono iracheni. E pochi ricordano che il più grande partito comunista in tutto il mondo islamico era proprio quello iracheno. Così come tanti dimenticano la vicenda dell’ascesa al potere del partito Ba’ath, un partito nazionalista, secolare, laico che aveva come obiettivo l’unificazione della nazione araba. Molti dei suoi membri erano cristiani, come ebrei erano tanti militanti del partito comunista». Saddam Hussein è un capitolo successivo a questa storia: la nascita del personaggio e del suo ruolo è segnato dall’intromissione degli Usa, dagli aiuti e dai finanziamenti della Cia – la quale in Iraq non avendo a disposizione, come strumento da utilizzare per i propri interessi, una componente islamista, favorì un’ala del partito Ba’ath «per il lavoro sporco». «Non capisco allora – chiede provocatoriamente Tariq Ali – perché la sinistra è stata accusata di Saddam, come se si trattasse di una sua opera. Allo stesso modo di Bin Laden, è nato come strumento degli Usa. Poi, con l’invasione del Kuwait, ha preso una strada imprevista».

Secondo argomento: perché la guerra in Iraq? Tariq Alì ripercorre i momenti della politica americana, la decisione di Bush e della sua amministrazione a invadere l’Iraq fin dall’inizio, la determinazione con cui è stato offerta all’opinione pubblica una scusa valida – la presunta, mai dimostrata e falsa esistenza di armi di distruzione di massa.

Nonostante sia sceso in strada uno dei più grandi movimenti pacifisti che si ricordi a memoria d’uomo, «l’aggressione non è stata fermata ed è subentrato un senso di demoralizzazione». Ma Tari Ali è soprattutto critico verso quella parte di sinistra moderata che pur essendosi opposta alla guerra, ha poi – una volta iniziato l’intervento militare – assunto la linea “va bene, ma finiamola subito”. L’accusa è rivolta anche a una parte della sinistra italiana, ai Ds, e, in larga misura, alla stampa “progressista” del nostro paese. «In tanti non hanno previsto la resistenza e alcuni fra quelli che erano scesi a manifestare per la pace si sono ritrovati ad augurarsi che non ci fosse resistenza all’occupazione. «Per fortuna così non è stato, altrimenti gli Usa avrebbero vinto». E non poteva essere diversamente, visto che in Iraq «c’è una lunga tradizione di lotta contro il colonialismo delle potenze occidentali, radicata anche nella popolazione». Qual è la mappa della resistenza irachena? Sicuramente un fenomeno composito, «decentralizzato, senza un comando unico, presente in tutte le principali città, composta per la maggior parte da gruppi nazionalisti e secolarizzati – le componenti religiose sono presenti ma minoritarie». In Iraq fanno parte della coalizione con gli americani e gli inglesi, anche polacchi, ucraini, giapponesi. «Perché meravigliarsi che chi va lì a prender parte all’occupazione, possa poi correre il rischio di essere ucciso»? Il riferimento, esplicito, è all’uccisione dei carabinieri italiani a Nassiriya – episodio richiamato anche nella prefazione al volume che l’autore indirizza al «lettore italiano». Né Tariq Ali risparmia l’atteggiamento di chi condanna la resistenza lanciando giudizi moralistici: «Nessuno spaccia ogni resistenza per bella. Ma come può una resistenza che nasce in una situazione brutta, essere bella?».

Terzo e ultimo argomento: l’accusa di antisemitismo lanciata alla sinistra. Oltre l’occupazione dell’Iraq, c’è anche quella israeliana in Palestina. «Il governo Sharon ha lanciato una nuova offensiva e, contemporaneamente, tutte le ambasciate israeliane in Occidente hanno iniziato ad accusare di antisemitismo chiunque critichi il governo israeliano. E’ un’accusa falsa, un ricatto intellettuale. Non c’è peggiore idiozia del sostenere che il sionismo rappresenti l’intera tradizione dell’ebraismo». Gli stessi storici israeliani – primo fra tutti, Benny Morris – «riconoscono ormai le atrocità commesse nel ’48, quando 700mila palestinesi vennero estirpati dalla loro terra e le donne stuprate. Anche se poi quella pulizia etnica viene giudicata da Morris come necessaria per lo Stato ebraico».

Al dibattito si è aggiunto l’intervento di Giulietto Chiesa, che ha sottolineato la potenza inedita dell’apparato ideologico a sostegno della guerra. «Mai come oggi si è visto un tale dispiegamento di forze sul fronte dell’informazione, capace di influire e organizzare il consenso». Prova di ciò, è «la campagna sistematica con la quale si lancia l’accusa di antisemitismo». Sulla confusione tra terrorismo e resistenza e sul dibattito aperto da Rifondazione sul rapporto tra violenza e sinistra, è intervenuta invece Luciana Castellina: «Bene ha fatto Tariq Ali ha criticare la stampa italiana e a restituire dignità alla legittima, sacrosanta resistenza irachena contro gli occupanti. Mi lascia perplessa il dibattito sulla non-violenza aperto sulle pagine di “Liberazione”, perché può approdare al rifiuto della resistenza irachena. Qual è il significato del dibattito? Se si vuol negare che la violenza è portatrice di processi rivoluzionari basterebbe ricordarsi del movimento pacifista degli anni ’80. O del discorso di Togliatti a Bergamo nel ’62, il quale sottolineava che con la bomba atomica non si poteva più pensare alla guerra come levatrice di processi rivoluzionari. E cosa significa poi l’accusa di violento al movimento operaio, che le guerre non ha mai voluto? Ricordiamoci che Lenin ruppe con la II Internazionale proprio sul voto favorevole ai crediti di guerra. E per quanto riguarda Marx, la sua analisi sulla violenza insita nei conflitti sociali significava che nessuna classe dominante accetterà di lasciare il potere senza ricorrere alla violenza. Questo è accaduto per l’Ottobre, ma anche per la rivoluzione francese». Ma la valutazione riguarda anche il presente, la resistenza irachena: «anche Raniero La Valle, un cattolico, ha affermato che ricomprendere tutte le resistenze nella categoria “terrorismo” significa non riconoscere più alcuna causa giusta. Naturalmente, ciò non significa che non esista il terrorismo», né che non vadano trovate forme che aiutino una «sacrosanta resistenza» – laddove è in atto – a diventare «resistenza di popolo e di massa».

Tonino Bucci