«Iraq, svolta o catastrofe»

È soltanto alla fine dell’intervista, quando riceve in regalo il libro con le migliori cento copertine del manifesto, che Richard Falk ritrova il sorriso, dopo una discussione di un paio d’ore su guerra e politica estera statunitense in cui ha illustrato una situazione drammatica, con l’America di fronte ad un bivio: da un lato il cambiamento, dall’altro l’irrigidimento delle politiche neoconservatrici, foriere di ulteriori catastrofi. Partecipando assieme a Mario Pianta – professore di politica economica all’Università di Urbino – e al senatore di Rifondazione comunista Francesco Martone a un forum nella redazione di via Tomacelli, il Professore Emerito di Diritto internazionale alla Princeton University, autore di decine di libri e fondatore dell’Association of Lawyers Against Nuclear Arms, ha descritto un momento di grande incertezza e tensione, sullo sfondo del quale si agita lo spettro di «un nuovo grande attentato negli Stati Uniti», capace di far precipitare la situazione allargando il conflitto in Medio Oriente e dando vita a qualcosa di simile al cosiddetto «scontro di civiltà».

Professor Falk, la guerra in Iraq è di fronte a un bivio?
Ci troviamo in un momento cruciale, perché il risultato delle ultime elezioni ha segnato una sconfitta per i repubblicani e i neoconservatori e (dal 1 gennaio 2007) il controllo del Congresso sarà nelle mani del partito democratico. Se questo porterà a cambiamenti sostanziali, è da vedere. Intanto, per cercare nuovo consenso per la guerra, Bush si è liberato di Rumsfeld e ha ricevuto il rapporto della Commissione Baker-Hamilton che chiede essenzialmente un ruolo centrale per la diplomazia e dialogo con la Siria e l’Iran, una sfida diretta alla leadership neocons che ha dominato l’amministrazione Bush fino a questo momento, grazie soprattutto all’influenza esercitata sul presidente dal suo vice, Dick Cheney. È molto difficile che gli sforzi di Baker riescano ad isolare i neocons. Ma se prevarrà l’approccio «più truppe a Baghdad», si sarà un’enorme pressione sull’esercito e sarà proposta la reintroduzione del servizio militare obbligatorio (quello statunitense è un esercito di professionisti, ndr). Questo passaggio risveglierebbe le università, che finora – a differenza che durante la guerra del Vietnam – sono rimaste addormentate.

Come si spiega questo torpore studentesco?
Il 95% degli studenti è contrario alla guerra, ma non protesta attivamente. Anche la società civile, le ong, non sono riuscite a mobilitarsi. Per due motivi. Anzitutto la mancanza d’unità, di cui la causa principale è la divergenza d’opinioni, nella sinistra liberal, sul conflitto israelo-palestinese. Inoltre le fondazioni di destra – anche grazie a ingenti finanziamenti pro-Israele – fanno una propaganda estremamente efficiente. Un esempio? Le reazioni al libro di Jimmy Carter, che paragona quello israeliano ad un sistema di apartheid: ci sono state polemiche furiose e subito l’accusa di «antisemita» per l’ex presidente Usa. Il secondo fattore di debolezza dell’opposizione è l’assenza di una prospettiva ideologica alternativa. I circoli progressisti Usa non si sono mai ripresi dal riflusso successivo agli anni ’60 né dalla fine della Guerra fredda. Dall’altro lato la destra neoconservatrice si è presentata ideologicamente coerente, organizzata e ben finanziata, e ha utilizzato istituzioni come l’American Enterprise institute, la Heritage foundation e la Hoover institution per esercitare la sua influenza sull’Amministrazione.
Cosa ha rappresentato l’11 settembre per l’Amministrazione statunitense?
Ha dato ai neoconservatori un mandato politico per la loro strategia, che non mira a combattere il terrorismo, ma a controllare il Medio Oriente per dominare il mondo. La loro agenda prevedeva la caduta del regime iracheno, iraniano, siriano e, se possibile, anche saudita. Petrolio, Islam, Israele, non proliferazione: è questa la strategia, illustrata nel famoso documento Project for a new american century, del 2000, che dichiarava che, per giustificare un grande attivismo in politica estera, c’era bisogno d’una «nuova Pearl Harbor». Non credo che gli attentati di New York e Washington siano il risultato di un complotto, ma c’è stata la volontà d’ignorare i campanelli d’allarme che segnalavano la possibilità di un grande attacco terroristico negli Usa. C’era bisogno di uno shock che rendesse permanente il momento unipolare, attraverso una politica estera militaristica. Le aspettative di questa leadership neoconservatrice però sono state fortemente deluse dalla resistenza irachena. Una battuta d’arresto aggravata da Hezbollah, che ha resistito a Israele nella guerra dell’estate scorsa. A questo punto i neoconservatori potrebbero allargare l’area del conflitto, coinvolgendo l’Iran (se non risolvi un problema, amplificalo, diceva Rumsfeld). La reazione opposta è la presa di coscienza che la guerra, come mezzo di controllo politico, non funziona. Le priorità militari non si traducono in vittorie politiche di fronte a una resistenza nazionale determinata come quella irachena o libanese. L’opinione pubblica si sta rendendo conto che questo investimento statunitense nella superiorità militare è il più grande spreco di risorse nella storia dell’umanità. Se fossero state usate in altri modi, oggi vivremmo in un mondo molto migliore.
Torna spesso sul ruolo d’Israele.
Israele sta cercando di generare una guerra civile tra Hamas e Fatah, con gli attacchi militari, con le sanzioni. Anche su questo il rapporto Baker-Hamilton ha proposto un nuovo approccio, ma l’Amministrazione Bush, influenzata dalle lobby pro-Israele, non vuole saperne. Non vedo alcun cambiamento a breve termine: Israele completerà il muro. Credo tuttavia che Israele, molto più che gli Stati Uniti, sia consapevole che il suo approccio alla sicurezza e alla questione palestinese non ha funzionato e sia più pronto ad accettare cambiamenti in futuro. Sul Medio Oriente la politica israeliana e statunitense sono ormai screditate e l’Europa sembrerebbe la logica alternativa per bilanciare il loro ruolo nell’area. Tuttavia il Vecchio continente non ha voglia di cambiare lo status quo nella regione, anche se per gran parte si è opposto alla guerra all’Iraq. Mi sembra che sviluppi come il rifiuto della Costituzione o il clima di generale ostilità nei confronti dell’immigrazione segnalino che l’Europa tende verso destra e rinuncia a fungere da contrappeso agli Stati Unti.
Vede un’evoluzione verso il cosiddetto «scontro di civiltà»?
Molto, nel breve termine, dipenderà dall’esito del confronto con l’Iran. Se prevale l’approccio neoconservatore, all’attacco all’Iran seguiranno rappresaglie e in un certo senso, si creerà un clima di «scontro di civiltà». Se gli Usa allenteranno la tensione con Tehran, troveranno un modo di uscire rapidamente dall’Iraq e iniziare ad affrontare il conflitto israelo-palestinese, tutto potrà migliorare. Ma vedo un grande potenziale per un’escalation. In particolare se si verificherà un grave attentato negli Stati Uniti, porterà quasi certamente a una risposta ideologica anti-islamica. I conservatori parlano già apertamente di «fascismo islamico» e Bush dichiara che siamo alle prese con «il principale scontro ideologico del 21esimo secolo». Le politiche nei confronti dei palestinesi, degli iracheni convincono sempre più musulmani che il potere degli Stati Uniti è usato per contrastare un risorgimento dell’Islam. E dalla rivoluzione islamica in Iran tra l’opinione pubblica araba c’è la convinzione che questi movimenti politico-religiosi rappresentino l’unica risposta che funziona contro la penetrazione occidentale in Medio Oriente. Una convinzione confermata dalla resistenza in Iraq e Libano. Il risultato della politica Usa di promozione della democrazia è stato un boomerang per Washington: in tutta la regione prevalgono le forze islamiste. Si è verificato un corto circuito tra l’idealismo di destra dell’Amministrazione (promozione di democrazia e libero mercato) e i suoi obiettivi strategici (il dominio sulla regione).

La strategia dei neocons non sta favorendo il crollo dell’impero, concentrando truppe in Iraq e Afghanistan, lasciando l’Africa alla Cina e favorendo l’ascesa della nuova sinistra in America latina?
Gli Stati Uniti sono stati feriti gravemente dall’esperienza dell’11 settembre. Prima di allora, la speranza di un dibattito politico era stata vanificata dal modo in cui era finita la Guerra fredda e dall’emergere della globalizzazione. Negli anni ’90 ha prevalso la percezione che ciò che era importante erano gli investimenti e il commercio che, nel breve periodo, ti potevi scordare l’Africa e l’America latina. Invertire questa tendenza è possibile, ma ora il trauma della guerra in Iraq si è sovrapposto a quello dell’11 settembre, a loro volta seguiti al crollo dell’Unione sovietica e all’emergere della Cina e dell’India. Non è chiaro se negli Usa, nel partito democratico, ci sarà una leadership in grado di dare una risposta a queste grandi questioni.

Ma se guardiamo alle mobilitazioni al di fuori degli Stati uniti la situazione sembra più confortante.
È lo sviluppo di «una nuova solidarietà terzomondista» che potrebbe avere un grande impatto. Una fratellanza che, nel lungo periodo, potrà moderare il modo in cui opera il capitalismo. Per essere semi-umano quest’ultimo ha bisogno del socialismo come contrappeso. Dopo la guerra fredda però sono state abbandonate anche le politiche keneysiane e siamo arrivati all’attuale forma di capitalismo, primitivo e brutale. La priorità dell’Amministrazione Clinton e delle due Bush junior è stata promuovere gli interessi del capitale transnazionale, delle politiche neoliberiste. Credo che i nuovi governi progressisti dell’America latina siano molto importanti proprio perché possono dare alle lotte dal basso un collegamento con gli Stati, dando forza a quello che viene definito «nuovo internazionalismo», un’alleanza tra la società civile e quei governi che non fanno parte della leadership mondiale neoliberista. Esistono delle aree specifiche in cui quest’alleanza si sta sviluppando e dove ha possibilità di avere successo. Si tratta di questioni importanti come il riscaldamento del pianeta e le emergenze umanitarie, settori entrambi in cui i potenti del pianeta si stanno dimostrando impotenti.