Iraq, «squadroni» Usa-Iran

Le forze di occupazione americane sempre più strette tra la necessità di diminuire le pesanti perdite quotidiane che ad aprile hanno già superato i cinquanta caduti – diminuendo il proprio contingente in vista delle prossime elezioni di mediotermine – e quella, altrettanto pressante, di non allentare la morsa sulla Mesopotamia, sembrano fare sempre più affidamento per il «lavoro sporco» della controguerriglia sugli squadroni della morte delle milizie sciite filo-iraniane ed in particolare su uno dei loro più importanti leader: il ministro degli interni Bayan Jabr, esponente delle brigate al Badr, addestrate da Tehran, e del partito sciita di maggioranza relativa il Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq. Così mentre a livello diplomatico infuria la polemica su un possibile, futuro nucleare iraniano, in Iraq i due paesi sembra aver stabilito una sorta di condominio, alle volte conflittuale ma per il momento assai solido, per schiacciare la resistenza irachena «araba» e dividersi le spoglie, soprattutto petrolifere della Mesopotamia.
Una politica – caldeggiata dai «neocon» Usa con l’obiettivo, caro ad Israele, di distruggere uno dei più importanti paesi arabi del Medioriente e con quello, caro agli Usa, di usare gli sciiti iracheni per controllare l’Iraq e per destabilizzare il regime iraniano – che ha portato ad una vera e propria caccia al sunnita per le strade di Baghdad e delle altre città irachene, con migliaia di morti uccisi nell’ultimo anno, solo per la loro appartenenza religiosa, dalle forze di sicurezza sciite del ministero degli interni, presso il quale siedono importanti esperti Usa di controguerriglia come Steven Casteel teorico dell’«opzione Salvador». Allo stesso tempo il carattere confessionale della repressione ha portato anche ad un rafforzarsi della resistenza in gran parte sunnita, ma anche sciita, e soprattutto patriottica, contro l’occupazione americano-iraniana del paese.
Per rendersene conto basta scorrere la cronaca delle ultime ore. Ed è forse questa la ragione per la quale l’Iraq sembra uscito dal dibattito politico e dei media. Le forze di sicurezza americane, 48 ore fa, hanno stretto d’assedio la roccaforte sunnita di Adhamamiya a nord di Baghdad, e partecipato con le nuove forze di sicurezza irachene ad una vera e propria invasione del quartiere scontrandosi con la dura resistenza della popolazione locale. All’operazione hanno partecipato anche un 150 uomini appartenenti ai tristemente noti «reparti speciali» sciiti dell’interno giunti nel quartiere a bordo di automezzi privati, alcuni nelle uniformi delle forze di sicurezza e altri invece in abiti civili. La battaglia, la prima di questo genere a Baghdad nella quale una milizia sciita è entrata con il sostegno dell’esercito Usa, in un quartiere sunnita, è durata oltre sette ore e ha lasciato il campo ad una calma piena di tensione. Si ignora il tragico bilancio degli scontri e i più temono per la sorte dei prigionieri e degli arrestati i cui corpi appaiono di solito qualche ora dopo nelle discariche della periferia di Baghdad. Impossibile ora entrare ad Adhamiya, quartiere sorto attorno alla famosa moschea di Abu Hanifa, roccaforte del nazionalismo iracheno e del partito Baath, chiusa dai posti di blocco americani.
Un grido d’allarme per l’uso fatto dagli Usa dei conflitti etnici e confessionali è stato lanciato ieri dal deputato sunnita Adnan al Dulaimi il quale ha denunciato «una campagna di pulizia etnica nei quartieri sunniti di Baghdad di Adhamiya, Abu Ghraib, e Dora» portata avanti di concerto dalle forze di sicurezza e dalle milizie dei partiti al governo. Tra le ultime vittime dei reparti speciali i fratelli di due importanti legislatori sunniti Mahmoud al Hashimi, fratello di Tariq al Hashimi e Taha al Mutlaq fratello del leader del Fronte iracheno per il dialogo nazionale, Salah al Mutlaq. Ieri mattina, puntuale, la risposta della resistenza, che ha fatto scoppiare una bomba all’interno di un bar frequentato dagli agenti del ministero degli interni nel quartiere di al Saleekh, adiacente ad Adhamiya. Vi sarebbero stati nove morti e una ventina di feriti.
Parallelamente in un altra roccaforte sunnita, la città di Ramadi a Ovest di Baghdad, le forze di occupazioni americane hanno faticato non poco, martedì mattina, a respingere, facendo uso di carri armati e blindati, un massiccio attacco della resistenza contro le loro postazioni in città e il palazzo del governatore facendo uso, in modo coordinato, di autobomba, granate, mortai e armi leggere. Nel corso dei combattimenti un carro armato Usa ha colpito la moschea di Farhat, a 300 metri dal palazzo del governatore della ribelle provincia di Anbar, della quale Ramadi è la capitale, danneggiandola gravemente. Si ignora se all’interno vi fossero insorti, come sostiene l’esercito, o semplici fedeli. E se vi siano state vittime.
Intanto le trattative per il nuovo governo iracheno continuano a trascinarsi senza risultato, per il rifiuto del leader sciita e premier uscente Ibrahim Jafaari del partito sciita «al Dawa» di lasciare il suo posto e per quello dei partiti filo-iraniani di rinunciare al ministero degli interni dandolo ad un politico, sempre sciita ma «neutrale» e contrario all’uso degli squadroni della morte come chiesto dai partiti laici, sunniti e curdi filo-Usa.