Iraq, raid Usa sullo scrutinio

Battaglia delle cifre e battaglie per le strade a due giorni dal referendum sulla nuova costituzione irachena che ha ridato fuoco alle polveri dell’Iraq con oltre 60 morti nella sola Ramadi bombardata ieri dagli aerei e dagli elicotteri Usa dopo che sei marines erano stati uccisi domenica nella zona. Le dichiarazioni rilasciate dal segretario di stato Usa, Condoleezza Rice, secondo la quale vi sarebbe stata «probabilmente» una vittoria del si al referendum di domenica, quando la stessa Commissione elettorale – nominata dagli Usa – ha annunciato ieri di aver deciso di rimandare di «alcuni giorni» qualsiasi annuncio ufficiale, hanno suscitato lo sdegno dei partiti e dei movimenti, in particolare sunniti, schieratisi contro la nuova Carta. Questi, a poche ore dalla chiusura dei seggi, hanno sostenuto – per bocca di Salah al Mutlaq esponente del Consiglio per il Dialogo Nazionale – di essere riusciti a bocciare la Carta con oltre i due terzi di no in tre province, Anbar, Salaheddin e Mosul e, a maggioranza, in quelle di Diyala a Kirkuk e hanno denunciato «gravi irregolarità e brogli» da parte dei funzionari sciiti e curdi filo-governativi. Di fronte allo «scippo» del referendum, Salah al Mutlaq ha poi ribadito ieri che «questa costituzione è una minaccia all’unità e alla stabilità dell’Iraq» e quindi i sunniti non rinunceranno «ad alcun mezzo legittimo per respingerla». L’esponente sunnita ha anche denunciato che in molti paesi e cittadine della provincia di Anbar, dove più forte è la resistenza e più dura la repressione – soprattutto nei centri nella valle dell’Eufrate e lungo il confine con la Siria come Haditha, A’anan, Rawa, He’et, Baghdadi e Al Qaim- la gran parte dei seggi non è stata neppure aperta e ha messo in guardia gli americani «dal far passare la costituzione con la forza perché questo provocherà una reazione che non potrà essere contenuta». Ovviamente opposti i dati forniti dalle autorità locali curde e sciite progovernative secondo le quali ad Anbar e Salahuddin il no avrebbe vinto di misura mentre a Mosul e Diyala avrebbero prevalso invece i favorevoli alla costituzione. La commissione ufficiale, soprattutto per quanto riguarda la decisiva ed esplosiva provincia di Ninive (Mosul) e di Tamim (Kirkuk), ricche di petrolio, entrambe con una maggioranza araba e arabo-turcomanna ma nel mirino dei movimenti curdi separatisti, ha annunciato di voler procedere ad un nuovo conteggio dei voti. L’incertezza sul risultato del referendum è dovuta anche ad una percentuale di votanti nelle zone sciite, soprattutto nel sud, ma anche in quelle curde del nord, assai più bassa del previsto, segno della sempre maggiore impopolarità del governo curdo-sciita pro-Usa e pro-Iran di Ibrahim al Jafaari e di nuove divisioni nella stessa comunità sciita. Non essendoci alcun quadro politico-istituzionale condiviso il referendum sulla nuova costituzione che divide l’Iraq in tre mini-stati etnico-confessionali, com’era prevedibile, non sembra abbia fatto altro che gettare altra benzina sul fuoco. I sunniti, gli sciiti e i laici contrari alla costituzione che hanno deciso di boicottare il voto (soprattutto gli sciiti di Baghdad e del centro sud vicini agli esponenti più radicali come Moqtada al Sadr, laici, arabi-cristiani, ma anche alcune aree sunnite) o di votare contro in massa (arabi-sunniti, gran parte dei turcomanni, nazionalisti arabi e sciiti «nazionalisti), di fronte all’evidente tentativo di far approvare comunque una Carta, a questo punto votata da una netta minoranza (26 milioni gli abitanti, 19 milioni gli aventi diritto al voto, 15 milioni coloro che si sono registrati, nove milioni coloro che si sarebbero recati alla urne) si sono sentiti defraudati di un successo che pensavano ormai essere a portata di mano. E questo non potrà che portare ad un ulteriore aggravamento della situazione. Situazione che, dopo una tregua elettorale chiesta e ottenuta dai 19 partiti sunniti e da quelli sciiti contrari alla costituzione per permettere il voto nelle zone dove è più forte la resistenza – l’Esercito islamico iracheno, l’Esercito dei Mujaheddin e l’Esercito della resistenza islamica,avevano dato indicazione di votare no, mentre i gruppi vicini ad al Qaida erano per un boicottaggio «morbido» – la guerra è ripresa con tutta la sua quotidiana violenza. E sull’Iraq si stanno per abbattere altri due tsunami dalle imprevedibili conseguenze: il primo è costituito dal processo farsa a Saddam che dovrebbe iniziare a metà settimana e il secondo dal tentativo del governo filo-Usa e filo-Iran di impedire la partecipazione alle elezioni di dicembre ad alcuni esponenti del partito dell’ex premier Iyad Allawi (sciita pro-Usa ma «nazionalista»).

Intanto sono dodici i soldati americani morti nelle ultime 48 ore, cinque dei quali nell’esplosione di una mina che ha distrutto un blindato a Ramadi. Poche ore dopo l’agguato, avvenuto domenica, è arrivata subito la vendetta Usa con il bombardamento di due villaggi «colpevoli» di aver collaborato nell’operazione contro i marines. Le vittime sarebbero almeno una sessantina. Tutti «terroristi» per gli Usa, venti guerriglieri e quaranta civili, tra i quali molti ragazzi, secondo fonti ospedaliere locali.