Iraq: raid, faide, attentati e sequestri. Gli Usa: «Altri 20mila soldati al fronte»

«Mi dimetto dal governo semplicemente perché qui non c’è un governo, il nostro paese sta sprofondando nell’anarchia». E’ una polemica e sconsolata constatazione quella di Abd Dhiab, ministro iracheno dell’Istruzione che, di fronte all’impotenza delle forze di sicurezza e delle truppe alleate ad arginare le violenze che stritolano il Paese, si è autosospeso dall’incarico.
Come dargli torto: martedì scorso 150 impiegati del suo ministero, tra cui diversi alti funzionari, sono stati rapiti in pieno centro di Baghdad (ossia una delle zone con la maggiore densità di presìdi militari del pianeta) da un commando di 80 uomini travestiti da poliziotti. Alcune decine di persone sono state rimesse in libertà nelle ore successive ma, secondo i primi racconti dei superstiti, molti ostaggi sono stati torturati e poi uccisi a sangue freddo dai rapitori. Oltre a dimettersi dal governo in segno di solidarietà con i rapiti, Dihab, nel corso un’intervista rilasciata alla Bbc, ha esplicitamente accusato la polizia irachena di aver in qualche modo “aiutato” il sequestro: «Bisognerebbe indagare sulle forze di polizia e mettere le persone giuste al posto giusto per porre fine al caos». Non è la prima volta che il ministero dell’Interno viene sospettato di coprire (se non di pianificare) le scorribande delle milizie sciite del Badr, veri e propri squadroni della morte dediti all’omicidio sistematico di esponenti della comunità sunnita.

In questo clima avvelenato che coinvolge gli stessi membri del governo, a ben poco servirà il rimpasto evocato dal premier al-Maliki. Tanto più che, dopo aver annunciato l’arrivo di decine di nuovi ministri, al Maliki ha compiuto una repentina marcia indietro, facendo sapere che verranno apportati unicamente dei «cambiamenti secondari».

Il caos di cui parlava l’inquieto Dihab è stato percepito anche da Washington che, secondo un’indiscrezione del quotidiano britannico Guardian, sarebbe pronta a spedire nel Golfo altri 20mila soldati. Una risposta “pavloviana” che, nella logica militare dell’amministrazione Usa, appare tuttavia un’ulteriore ammissione del fallimento della strategia di guerra. In tal proposito il Guardian, parla di una speciale «task-force di generali del Pentagono» incaricata di elaborare una nuova strategia militare per uscire dal pantano del Golfo. Se non se ne conoscono i dettagli, quel che è certo è che il tanto decantato ritiro appare oggi una prospettiva ancora più lontana.

Intanto, semmai ha ancora un senso impiegare questa espressione, quella di ieri è stata una giornata campale che ha condensato tutto il campionario di orrori che caratterizza l’infinita transizione irachena. Rapimenti, attentati, rappresaglie, faide comunitarie, conflitti a fuoco ad ogni ora del giorno, in ogni parte del Paese. Il fatto più cruento e spettacolare è avvenuto a Baghdad dove sessanta persone che viaggiaveno a bordo di sei minibus sono state massacrate dall’ennesimo commando armato, come ha riportato l’emittente locale al Iraqiya, la quale parla di «decine di cadaveri abbandonati per strada». Sempre nella capitale, altre 12 persone sono rimaste uccise mell’assalto a una panetteria sciita di Zayuniah, quartiere alla periferia orientale della città.

Sul fronte degli scontri tra truppe d’occupazione e guerriglieri, bisogna registrare una sanguinosa operazione dell’esercito statunitense nella zona rurale di Youssifiyah, alcune decine di chilometri a sud della capitale, in cui militari hanno ucciso in una violenta sparatoria almeno 10 presunti membri di al Qaeda. Se nessun americano ha perso la vita nello scontro, meno fortunati sono stati i dieci marines rimasti uccisi nelle ultime 48 ore in diverse parti dell’Iraq come ha riferito il Comando Usa: dall’inizio del mese di novembre sono quasi 50 i soldati statunitensi caduti in quella che sembra una progressione inarrestabile. E non ci sono segnali che suggeriscano un’inversione di tendenza.