Iraq, primi contatti tra governo e guerriglieri sunniti

Primi contatti tra la guerriglia sunnita e il governo di Nouri al-Maliki, in vista di un eventuale accordo sul Piano di riconciliazione lanciato dal premier per isolare gli “stranieri” di al-Qaida.
Un dialogo possibile, favorito dalle aperture sul documento da parte di alcune sigle riconducibili alla galassia nazionalista. Ma sul quale si allungano le ombre di conflitti a sfondo confessionale che, anche ieri, hanno insanguinato l’Iraq.

E’ stato il primo ministro in persona a confermare l’esistenza di contatti con alcuni gruppi di insorti. Al centro della trattativa, il Piano presentato domenica scorsa in Parlamento da al-Maliki. Una bozza di compromesso, in sostanza, fondata su una controversa amnistia «per chi non ha versato sangue iracheno innocente». Ma che prevede anche la riabilitazione di membri del partito Baath, nonché l’apertura di un tavolo costituzionale per ammorbidire le soluzioni federaliste approvate dalla maggioranza sciita e dai curdi.

Secondo il quotidiano filogovernativo al-Sabah, i partiti armati pronti a dialogare adesso sono dieci. Un fronte ampio, che rappresenterebbe il 70 per cento della guerriglia sunnita. Ieri, un atteggiamento di disponibilità è stato espresso dalle Forze di Ammuriya, l’Esercito di mujaheddin e le Brigate di Salaheddin: a patto, sempre, che il Piano preveda un calendario per il ritiro delle truppe straniere e riconosca la «resistenza» come diritto legittimo.

Opportunità che il potere di Baghdad prova a sfruttare. Tareq Hashemi, vicepresidente della Repubblica e leader della principale formazione politica sunnita, il Partito islamico iracheno, ha dichiarato di aver proposto la convocazione di una «conferenza allargata» di capi tribali. L’iniziativa punta a «estinguere il fuoco della divisione e dell’alienazione».

Sul campo, la situazione rimane critica. Nella città di Baquba, a nord-est della capitale, due autobomba hanno provocato almeno quattro morti e diciotto feriti. Tra le vittime, anche manovali in cerca di lavoro. A pochi chilometri di distanza, miliziani sciiti hanno attaccato a colpi di mortaio una moschea sunnita e dato alle fiamme una ventina di negozi. Sangue anche a Baghdad, dove alcune esplosioni hanno causato otto feriti nel quartiere di Kadhimiya.

Benzina sul fuoco della guerra civile. Un conflitto iscritto nella realtà multiconfessionale del Paese dei Due Fiumi, ma parte anche della strategia delle falangi integraliste. A testimoniarlo, ieri, l’arresto di uno dei responsabili dell’attentato al mausoleo sciita di Samarra. Ferito in uno scontro a fuoco con la polizia irachena nel quale sono rimasti uccisi 15 miliziani integralisti, il tunisino Abu Kudama ha raccontato le circostanze dell’attacco che nel febbraio scorso provocò la distruzione del tempio. A piazzare le cariche esplosive sarebbe stato un commando composto da sette persone, quattro delle quali originarie dell’Arabia Saudita. Lo stesso gruppo avrebbe poi assassinato Atwar Bajat, giornalista della tv satellitare al-Arabiyagiunta nella città a nord di Baghdad per documentare l’attentato.

Fu proprio la ferita di Samarra a scatenare un’ondata di violenze tra le maggiori etnie dell’Iraq. Secondo un rapporto diffuso alcuni giorni fa dalla Missione delle Nazioni Unite per l’assistenza umanitaria (Unami), negli ultimi quattro mesi il numero dei profughi nel Paese è cresciuto di 150mila unità e ha raggiunto così quota un milione e 300mila. Il documento sottolinea che questi esodi drammatici coinvolgono ormai «tutte le comunità del Paese, su base nazionale».

Un quadro da incubo, al quale contribuiscono anche le operazioni anti-guerriglia guidate dalle truppe americane. Come quella che a Ramadi, roccaforte ribelle nella regione sunnita di al-Anbar, di recente ha costretto 3.200 persone ad abbandonare la città.