Iraq, parlamentino etnico

La Commissione elettorale irachena, mentre le forze americane e le milizie governative curdo-sciite bloccavano qualsiasi comunicazione tra la capitale e le tre province di Anbar, Ninive e Salah ed Din, dove più forte è la resistenza, ha finalmente annunciato i risultati ufficiali delle elezioni del quindici dicembre scorso: conferma, ma senza raggiungere, per un soffio, la maggioranza dei due terzi, dei partiti sciiti e curdi al governo, mentre per la prima volta entra nel parlamento una consistente pattuglia di deputati sunniti. Un riequilibrio voluto con ogni mezzo dall’Amministrazione Bush, tramite l’ambasciatore a Baghdad, Zalmay Khalilzad, nel tentativo di cooptare nella gestione della colonia alcuni settori sunniti «moderati» per poter isolare la guerriglia e ridimensionare il peso dei partiti filo-iraniani di maggioranza ed in particolare dello Sciri, il Partito per la Rivoluzione Islamica in Iraq, che con la loro «caccia al sunnita» lanciata dal ministro degli interni Bayan Jabour non hanno fatto altro che portare sempre più reclute alla resistenza. Il condominio Usa-Iraniano sull’Iraq si era infatti sbilanciato troppo verso Tehran e gli Usa hanno deciso di modificarlo a loro favore, con la copertura elettorale, cercando di aprire dei canali di comunicazione con alcune tribù vicine alla guerriglia, ma anche, senza molto successo, con settori della resistenza stessa, ai quali hanno promesso: di liberare alcuni ex esponenti del Baath – come in parte è avvenuto – affidare l’ordine pubblico nelle città sunnite a milizie locali da loro finanziate, di attenuare il processo di de-baathizzazione, di introdurre delle modifiche nella costituzione che divide il paese in tre entità etnico-confessionali indipendenti (curda a nord, sciita al sud -entrambe con i principali giacimenti petroliferi del paese – e una sunnita al centro senza alcuna risorsa) ricreando un minimo di istituzioni «nazionali».

I leader della comunità sunnita e i gruppi sunniti, sciiti e laici contrari all’occupazione si sono fidati e hanno partecipato massicciamente alle elezioni mentre la guerriglia ha proclamato una tregua per i giorni delle elezioni rispettata persino dai gruppi filo-al Qaida di Zarqawi. Il problema è che i partiti etnici e confessionali al governo curdi e sciiti, privi di qualsiasi dimensione nazionale, stanno facendo il possibile perché quest’operazione di aggiustamento del tiro da parte dell’Amministrazione Bush – che ha limitato alcuni estremismi «neocon» senza rimetterne in discussione il progetto di fondo di cancellazione dell’Iraq – non vada in porto. Da qui i brogli che hanno limitato fortemente la rappresentanza delle aree anti-occupazione. I risultati elettorali, con un parlamento etnico-confessionale spezzettato in tanti gruppi di potere «particolari», lasciano ora campo libero al proconsole Usa Khalilzad e alla sua politica di «limitazione dei danni» tendente a diminuire il contingente Usa ma continuando a controllare il paese e soprattutto il suo petrolio. Secondo i risultati annunciati ieri nessuna lista, neppure quella unitaria sciita (filo-iraniana) dell’ Alleanza Irachena Unita (capeggiata da Abdul Aziz Al Hakim) con i suoi oltre 5 milioni di voti (su quindici milioni di iscritti al voto) e 128 seggi (rispetto ai precedenti 146) potrà formare il governo da sola. Dovrà per forza allearsi – come già in passato – con la coalizione curda filo-Usa di Jalal Talabani (Puk) e di Massud Barzani (Pdk), che insieme hanno raccolto 53 seggi (ne avevano 75). Potrebbe invece rimanere fuori del parlamento il faccendiere filo-Usa e filo-Tehran, Ahmed Chalabi mentre si ridimensionano le aspettative di Iyad Allawi, sciita, ex baath e beniamino degli Usa, che con una lista «Irachena Nazionale» sunnita-sciita, laica si è aggiudicato non più di 25 seggi (ne aveva 40). Tra le nuove liste, in gran parte sunnite, entrate in parlamento c’è da segnalare il successo del Fronte dell’Accordo Iracheno guidato da Adnan al Duleimi (sostenuta dai fratelli musulmani iracheni) che ha conquistato 44 seggi ai quali andrebbero poi aggiunti anche gli 11 del Fronte Nazionale per il dialogo del sunnita Salah al Mutlaq che non fa mistero dei suoi contatti con la resistenza. Intanto il proconsole Usa Khalilzad ha già iniziato le consultazioni per il futuro governo. Trattative difficili dal momento che la lista sciita unitaria con 128 seggi su 275 non ha la maggioranza semplice e neppure, anche alleandosi con i partiti curdi, quella dei due terzi dei deputati necessaria per bloccare le modifiche alla costituzione. Ancora una volta l’ultima parola sul governo e sul programma spetterà al proconsole Usa Khalilzad.