A soli cinque giorni dalla chiusura dei seggi per le elezioni politiche del quindici dicembre, i rappresentanti delle varie liste di opposizione, in particolare quelle sunnite e turcomanne, hanno denunciato ieri i brogli compiuti dai partiti sciiti e curdi al governo e chiesto che si proceda ad un riconteggio dei voti o, altrimenti, alla ripetizione della consultazione. La commissione elettorale governativa ha però risposto che di oltre mille ricorsi solamente una ventina sarebbero «seri» e ha sostenuto che in ogni caso il voto non sarà ripetuto. Poi, lasciando spazio ad eventuali «aggiustamenti» dei risultati, un portavoce della Commissione ha precisato che in ogni caso i risultati ufficiali non si avranno prima del gennaio prossimo. Siamo quindi già allo stallo. La protesta contro i brogli è venuta in particolare dalla lista sunnita «Fronte dell’Accordo iracheno» e nel corso di una conferenza stampa svoltasi ieri a Baghdad i dirigenti dei diversi partiti che la compongono, Dafir al-Aani, Adnan al-Duleimi e Arfan Al-Hashimi, hanno presentato alla stampa una lunga serie di gravissime irregolarità che avrebbero avuto luogo in particolare nella capitale irachena. «Noi siamo la seconda lista più votata in queste elezioni dopo quella sciita – ha sostenuto Al-Aani – ma dai risultati tutto ciò non emerge e per questo ora non possiamo pensare a nessuna alleanza post-elettorale perché non riconosciamo i risultati che vengono presentati dalla Commissione». A far infuriare la lista sunnita – ma in realtà i brogli sono stati denunciati anche dai movimenti turcomanni, dalla lista dell’ex premier Iyad Allawi e dallo stesso leader sciita radicale Moqtada al Sadr – sono stati i primi risultati parziali resi noti dalla Commissione. Secondo questi primi dati provvisori al voto del 15 dicembre per l’Assemblea nazionale (il parlamento iracheno), la coalizione sciita dell’Alleanza unita irachena del premier Ibrahim al Jaafari (composta dal Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq «Sciri», partito di maggioranza e longa manus di Tehran, dall’ala filo-Usa del partito «Al Dawa» e dagli indipendenti di Moqtada al Sadr ) avrebbe ottenuto il 59% dei voti a Baghdad, seguita dal 19% del Fronte sunnita e dal 14% della lista nazionale dell’ex premier Iyad Allawi (sciiti laici, liberali sunniti e Pc pro-occupazione). Dei risultati che non corrisponderebbero affatto ai rapporti dei vari rappresentanti di lista, presenti là dove hanno potuto. In realtà il voto sarebbe stato pesantemente influenzato dal controllo esercitato a livello locale sulle strutture amministrative da parte delle milizie filo-iraniane del Consiglio Supremo della Rivoluzione in Iraq (Sciri) che controllano il Sud e alcuni quartieri sciiti di Baghdad e da quelle dei due partiti curdi – il Partito democratico del Kurdistan e l’Unione patriottica del Kurdistan riuniti in una lista unitaria. I primi risultati, con percentuali di saddamiana memoria per i partiti curdi e sciiti al governo stanno a dimostrare non solo il carattere «etnico e confessionale» del voto ma anche la sua sostanziale falsità: a Bassora la lista unitaria sciita avrebbe ottenuto il 77% dei voti, a Kerbala il 76% a Najaf il 90%. Il listone curdo avrebbe preso il 95% ad Arbil, e il 90% a Dohuk. In ogni caso sembra difficile che l’Alleanza sciita possa raggiungere i due terzi dei voti, pari a 184 seggi, necessari per evitare un governo di coalizione, probabilmente, come nel passato governo, con i partiti curdi.
I sunniti, così come gli sciiti e i laici antioccupazione, potrebbero così essere di nuovo emarginati nel nuovo parlamento che dovrà varare tutte le leggi appllicative della costituzione «made in Usa» che divide il paese in tre entità etnico-confessionali. Contro la divisione del paese non ci sono solamente le forze della resistenza e i partiti sunniti ma anche gli sciiti «arabi» di Moqtada al Sadr, parte di «al Dawa», i movimenti turcomanni, i nazionalisti arabi e parte dei laici. A favore i partiti separatisti curdi e la dirigenza filo-iraniana dello Sciri. Ogni eventuale modifica della costituzione dovrà inoltre essere approvato dai due terzi dei votanti in un referendum consultivo. Un meccanismo così complicato da condannare alla paralisi le nuove istituzioni irachene e tale da lasciare sempre l’ultima parola all’ambasciatore Usa in Iraq, il «neocon» Zalmay Khalilzad.