Iraq, l’ombra di una nuova guerra sul vertice per la «stabilizzazione»

In un clima di forte tensione, mentre milioni di pellegrini sciiti incuranti del pericolo di attentati affollano la città santa di Kerbala, a Baghdad si apre oggi la conferenza sulla «stabilizzazione» dell’Iraq. Un appuntamento che difficilmente si concluderà con una soluzione per la gravissima situazione interna irachena o con un cambiamento di condotta da parte dei paesi coinvolti in quella crisi, occupanti americani in testa.
«Sappiamo che un solo meeting non è sufficiente, ma ci attendiamo atti concreti», ha commentato ieri Hoshiyar Zebari, ministro degli esteri del governo iracheno creato e sostenuto dagli Usa. Eppure l’incontro – non ad alto livello diplomatico – è sulle pagine di tutti i giornali, perché vede seduti al tavolo dei colloqui, assieme al governo iracheno, agli stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, alla Lega araba, alla Conferenza islamica, alla Cina, agli Stati Uniti, anche Siria e Iran, due paesi nel mirino di Washington, che recitano (soprattutto Teheran) un ruolo da protagonisti nelle vicende irachene.
In questi ultimi giorni tutto l’interesse è ruotato intorno ad un possibile colloquio tra il coordinatore per l’Iraq del Dipartimento di stato americano, David Satterfield, e i rappresentanti di Siria e Iran. Non pochi hanno parlato di «svolta» nella linea tenuta sino ad oggi dall’Amministrazione Bush nei confronti di Siria e Iran, una ipotesi che lo stesso Satterfield ieri ha provato a rafforzare affermando che «se noi americani verremo avvicinati, mentre beviamo un succo d’arancia, dagli iraniani o dai siriani per discutere di un Iraq stabile, sicuro, pacifico e democratico, non ci gireremo dall’altra parte per scappare».
Qualcuno ha anche intravisto nella conferenza di Baghdad una possibilità di scongiurare un possibile attacco militare americano (o israeliano) contro le centrali nucleari iraniane. Regna un ingiustificato ottimismo. Il noto analista britannico Patrick Seale, invece ha scritto che se gli Usa volessero davvero garantire il successo di questo incontro, dovrebbero annunciare un loro prossimo ritiro dall’Iraq e rinunciare a tenere in sella il governo fantoccio di Nuri Al-Maliki che con la sua politica contribuisce all’aggravarsi dello scontro tra musulmani sunniti e sciiti.
Dovrebbero garantire l’integrità territoriale dell’Iraq e non la sua spaccatura su base etnica e confessionale. Ma ciò è lontano da un’Amministrazione che pur avendo accettato, perché costretta dalla grave situazione irachena, la partecipazione alla conferenza anche di Teheran e Damasco, continua a respingere le conclusioni raggiunte dalla Commissione Baker-Hamilton sulla politica Usa in Iraq.
Washington in realtà pensa di poter portare ancora avanti il progetto neocoloniale che ha avviato e che prevede, anche dopo un eventuale ritiro delle forze di occupazione, il mantenimento di importanti basi militari in Iraq, come ha spiegato il «moderato» Segretario alla difesa Gates. D’altronde la recente legge approvata da Baghdad per lo sfruttamento del petrolio iracheno ha definitivamente chiarito, a quei pochi che ancora non lo avevano capito, che la partita vera si gioca intorno al controllo dei giacimenti di greggio dell’Iraq.
Viste le premesse, Damasco e Teheran non possono legittimamente pensare di raggiungere oggi a Baghdad ciò a cui mirano, ovvero l’apertura senza condizioni di una trattativa ampia con Washington su nucleare, occupazione israeliana del Golan, ridefinizione dei ruoli nella regione. L’Iran, con l’incontro della settimana scorsa tra il presidente Ahmedinejad e re Abdallah dell’Arabia saudita, ha segnalato l’intenzione di portare avanti una politica estera più pragmatica rispetto al passato recente. Soprattutto sa di poter fare molto per la cosiddetta «stabilizzazione» dell’Iraq in cambio di una contropartita adeguata.
Gli Stati Uniti però non gli riconosceranno mai lo status di potenza regionale, al contrario faranno in modo da ridimensionarlo e, su pressione israeliana, non esiteranno, forse già entro quest’anno, a colpire le centrali atomiche iraniane se Ahmadinejad non accetterà condizioni poste al suo programma nucleare. Ancora più velleitarie si annunciano le ambizioni siriane.
Come ha notato Raghida Dergham su Al-Hayat, il presidente siriano Assad spera di persuadere gli americani a dimenticare il tribunale internazionale chiamato a giudicare i presunti responsabili (legati, secondo l’accusa, a Damasco) dell’attentato all’ex premier libanese Rafiq Hariri «ma gli Usa non sono disposti a sacrificare i loro importanti interessi in Libano in cambio della cooperazione siriana in Iraq». Non solo, ha aggiunto, ma sono proprio i «fratelli» arabi che ora vogliono quel tribunale come ha chiarito il Segretario generale della Lega Araba Amr Musa.