Iraq, la strategia di Bush e la Führerbunkersyndrome

La decisione del Presidente Bush di inviare altri 20mila soldati in Iraq (contro la volontà chiaramente espressa della maggioranza del popolo americano, contro il parere concorde di un comitato congiunto appositamente creato da tutte le parti politiche, contro i suggerimenti sempre più allarmati del suo stesso partito, contro i consigli dei vertici militari, insomma contro tutto e contro tutti, e basandosi invece esclusivamente su un uso sempre più anti-democratico delle sue prerogative di Commander-in-Chief e sulla sua profonda convinzione messianica di aver ricevuto da Dio una missione che deve essere portata a termine ad ogni costo) configura con chiarezza un caso di quella che i Tedeschi chiamano la “Führerbunkersyndrome”, la sindrome del bunker del Führer.

Un capo politico-militare isolato nel suo centro di comando perde progressivamente il contatto con la realtà e si rifiuta di riconoscere che una guerra di aggressione, che egli stesso ha scatenato senza alcuna reale necessità, è ormai persa malamente ed è persa soprattutto a causa delle sue stesse decisioni. Il capo rigetta quindi questa realtà che non gli piace e si rifugia sempre più in un suo mondo irreale, continuando a formulare strategie sempre più campate in aria e a emettere ordini sempre più insensati, ma che secondo lui dovrebbero inevitabilmente portare all’immancabile vittoria finale.

Un corollario di questo atteggiamento è che chiunque non sia d’accordo col capo e osi formulare delle critiche viene immediatamente messo da parte. Questo è appunto quello che è successo al generale Casey e al generale Abizaid, rispettivamente comandante delle forze Usa in Iraq e comandante del Central Command, ambedue rimossi pochi giorni fa dai loro rispettivi incarichi per aver espresso la loro convinzione che l’aumento di truppe deciso dal Presidente non servirà a nulla e sarà anzi controproducente. Così, alla fine l’entourage del capo viene a essere costituito esclusivamente da persone, la cui principale se non unica qualificazione per il loro incarico consiste nella disponibilità ad accettare supinamente qualsiasi decisione venga formulata dal capo.

Per quanto riguarda l’Iraq, per esplicita dichiarazione del presidente Bush nel suo discorso i 20mila uomini in più sono destinati soprattutto a “garantire la sicurezza di Baghdad”. Si tratta cioè di condurre un massiccio rastrellamento contro la cosiddetta Sadr City, cioè la grande sezione di Baghdad con una popolazione stimata a circa due milioni di persone che è attualmente controllata dalle milizie del fondamentalismo sciita e dove né i soldati americani né le forze del governo iracheno osano da tempo mettere piede. Come il Presidente ha tranquillamente ammesso, l’operazione comporterà un bagno di sangue, il cui prezzo sarà però pagato soprattutto dalla sventurata popolazione civile irachena.

Quella che il presidente Bush ha cercato nel suo discorso di spacciare come “una nuova strategia” per l’Iraq è quindi invece esattamente la stessa fallimentare strategia, che l’amministrazione Usa ha ostinatamente perseguito negli ultimi anni: la tragica convinzione che l’uso della forza militare sia la ricetta magica per risolvere qualsiasi difficoltà di politica internazionale e che quindi sia, ad esempio, possibile domare una rivolta generalizzata e una guerra civile esclusivamente mediante la repressione e senza alcun reale progetto politico, a parte le ormai francamente indigeribili sparate retoriche circa la riconciliazione e la democrazia in Iraq.

Non per nulla il comando delle forze di terra in Iraq è ora affidato al generale Odierno, che quando era alla guida della Quarta divisione di fanteria nel 2003-2004 si fece una fama poco simpatica per la sua politica di indiscriminata brutalità contro gli Iracheni e la sua convinzione che la violenza fisica fosse l’unica cosa che essi capivano.

Ma siccome l’esperienza e la storia dimostrano che le rivolte e le guerriglie partigiane non si domano in questo modo, la perversa ostinazione del presidente Bush avrà come unico risultato pratico quello di rendere pressoché inevitabile che l’avventura militare americana in Iraq si concluda in un fallimento molto simile al disastro in Vietnam, ma ancora più grave e dalle conseguenze strategiche incomparabilmente più serie non solo per gli Stati Uniti, ma anche per tutto il resto del mondo.

Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: l’allarmante percezione che gli Stati Uniti sono guidati da una persona che – diciamo – si comporta come se avesse qualche difficoltà a mantenere il proprio equilibrio mentale ha delle implicazioni che vanno bene al di là della pur gravissima situazione irachena.

Bush ha ancora due anni di potere come presidente ed è assolutamente determinato a portare a termine quella che vede come la sua missione e a lasciare la sua impronta nella storia – e ci sono purtroppo delle ottime ragioni per temere che questa impronta sarà stampata nel fango e nel sangue.

Le chiare minacce che il Presidente ha espresso nel suo discorso nei confronti della Siria e dell’Iran potrebbero forse, se espresse da un altro personaggio e in un contesto diverso, essere viste come un’attenta applicazione del principio del bastone e della carota, ma venendo da lui – e in questo momento – sono poco meno di una dichiarazione di guerra.

Appare quindi pressoché inevitabile che prima della fine del suo mandato, Bush attaccherà certamente l’Iran e forse anche la Siria, in una perversa ‘fuga in avanti’ basata sulla convinzione che allargare un conflitto che non si riesce a vincere sia l’unico modo per vincerlo. E’ un po’ come Hitler che attacca la Russia, perché non riesce a piegare la Gran Bretagna.

Il resto del mondo si trova quindi a dover decidere come affrontare e nei limiti del possibile gestire una situazione, in cui la maggiore superpotenza del globo è guidata da un George W. Bush la cui personalità sta rivelando aspetti sempre meno piacevoli.

Il Presidente è chiaramente impenetrabile a qualsiasi suggerimento o pressione sul piano politico, sia che vengano dagli stessi Stati Uniti e men che meno da fuori (si guardi che fine ha fatto Tony Blair con la sua ‘relazione privilegiata’ con gli Usa e la sua convinzione di riuscire a influenzare Bush!). E anche se dovesse capitare qualcosa a Bush sul piano fisico o su quello legale, cadremmo dalla padella nella brace, perché il nuovo presidente sarebbe Dick Cheney, che è con tutta evidenza ancor meno equilibrato di Bush.

Visto che il presidente Bush non può essere né convinto né fermato e viste quali sono le sue intenzioni, non si vede altra soluzione politica per i Paesi dell’Occidente che allentare deliberatamente i legami politici, strategici e militari che attualmente ci uniscono se non agli Stati Uniti in quanto tali, certo a questa amministrazione.