Iraq: la soluzione è «vietnamita»

Nel luglio 1969, Richard Nixon annunciò il suo piano per metter fine alla guerra del Vietnam: sostituire le truppe americane laggiù, circa mezzo milione di uomini, con truppe del regime amico di Van Thieu, assistite da consiglieri, armi e bombardamenti americani. In questo modo si sarebbe potuto continuare la guerra, mantenere la credibilità degli impegni americani all’estero e, contemporaneamente, ridurre le perdite di soldati. Nasceva la «vietnamizzazione».
La parola è oggi dimenticata nel lessico politico americano, ma certamente James Baker e Lee Hamilton, i due presidenti della commissione incaricata di trovare soluzioni al problema dell’Iraq, sanno bene di cosa si tratta perché le proposte della loro commissione seguono la stessa strada: trasformare il ruolo delle truppe americane da quello di unità combattenti a quello di unità di supporto, riversando il peso maggiore della guerra sugli alleati locali. Affidando alle forze irachene «la responsabilità primaria per le operazioni di combattimento», inoltre, la maggior parte delle truppe americane potrebbero tornare a casa. «Salvo inattesi sviluppi nella situazione di sicurezza sul terreno – sostengono Baker e Hamilton – tutte le brigate di combattimento non necessarie per la protezione del contingente potrebbero essere fuori dall’Iraq entro il primo trimestre del 2008».
Come 37 anni fa, l’idea di far combattere gli alleati è la risposta a una palese impossibilità di vincere la guerra: chi sta per prevalere non ha bisogno di scaricare su altri il peso dei combattimenti. Non solo: la «irakizzazione» della guerra, esattamente come la vietnamizzazione, è una risposta al malcontento dell’opinione pubblica americana. Nel 1968, Nixon fu eletto dopo che i democratici avevano fallito nel tentativo di metter fine ai combattimenti bombardando Hanoi e Haiphong. Né lui, né Kissinger, intendevano tener fede alle promesse elettorali (la vietnamizzazione era un modo per restare in Vietnam anziché andarsene) ma erano sufficientemente realisti per capire che il consiglio dei saggi dell’establishment americano (ritirarsi) era una soluzione obbligata. Ci vollero quattro anni e alcune altre decine di migliaia di morti americani prima di arrivare agli accordi di Parigi del 1973.
Oggi, i piani di «andarsene senza andarsene» non sono più realisti di allora. Baker e Hamilton propongono di coinvolgere Iran e Siria in un qualche tavolo di discussione che permetta di legittimare un governo diverso da quello attuale, ma non si vede perché il testardo Bush, che ha impostato la sua presidenza sulla lotta contro «l’Asse del Male» dovrebbe smentire se stesso fino a questo punto. Né si vede perché Iran e Siria dovrebbero collaborare, sapendo che Bush è un leader debole, impopolare e con un Congresso ostile alla sua politica.
Da qualche settimana, circola a Washington l’idea di aumentare le truppe nei prossimi mesi, invece di diminuirle, per stroncare la resistenza quanto basta per salvare la faccia quando inizierà il ritiro. Anche in questo caso si tratta di una ricetta poco realistica: la guerriglia non ha che da aspettare, prima di tirar fuori i kalashnikov o le autobombe nascoste in attesa di tempi migliori.
Non ci sono «buone» soluzioni alla tragedia irachena, per nessuno. La guerra civile tra sciiti e sunniti continuerà anche dopo il ritiro americano, ritiro i cui tempi non sono ancora maturi: le perdite umane sono meno alte e meno visibili di quelle del Vietnam, il nazionalismo degli Stati uniti assai più forte. Per metà del Paese si sta combattendo una guerra «difensiva», post 11 settembre. L’altra metà ha fatto sentire la sua voce nelle elezioni di novembre, ma non necessariamente saprà trovare un candidato per le presidenziali del 2008.
E anche un candidato che volesse ritirarsi dovrebbe prima vincere le elezioni.