Iraq, la piazza sunnita:«Brogli alle elezioni»

Più di diecimila persone in piazza ieri a Baghdad per protestare contro i brogli e le manipolazioni che hanno alterato – secondo la esplicita accusa dei leader sunniti ma anche di esponenti sciiti laici – i risultati delle elezioni politiche del 15 dicembre. Rispondendo all’appello della coalizione di almeno trenta fra partiti e movimenti che conduce la battaglia politico-legale per ottenere una indagine a fondo sulle irregolarità, la folla è sfilata nelle strade della capitale, un gesto che nella Baghdad di oggi – fra attentati di Al Zarqawi e “grilletto facile” degli americani sempre più nervosi – richiede una certa dose di coraggio. Per paradossale che possa apparire, venivano inalberati ritratti dell’ex-premier Iyad Allawi, sciita ma laico, la cui Lista nazionale irachena è fra i promotori dell’iniziativa: fino a marzo primo ministro fantoccio voluto dagli americani, oggi all’opposizione di fronte alla consegna di fatto del potere – sempre da parte degli americani – agli sciiti filo-iraniani e ai curdi. I manifestanti reclamavano a gran voce la formazione di un governo di unità nazionale, che dia il dovuto peso appunto ai sunniti e ai laici e lasci da parte i criteri di “libanizzazione” imposti dagli americani (cosa della quale peraltro Allawi avrebbe dovuto accorgersi molto prima). Uno dei dimostranti, Hamid Abdul Razza, ha detto all’inviato di un’agenzia occidentale: «Protestiamo per respingere i brogli elettorali, vogliamo chiedere al governo e alla commissione elettorale: dove sono finiti i nostri voti? Chi li ha rubati?». Alla commissione sono state denunciate fino a millecinquecento irregolarità ed è stato chiesto l’intervento di un organismo internazionale; ma le Nazioni Unite si sono tirate indietro (tanto per cambiare) e la Commissione elettorale ha annunciato che i risultati ufficiali delle elezioni saranno resi noti entro una settimana. Se le denunce di brogli e irregolarità verranno ignorate o respinte, potrà scattare allora da parte dei sunniti e di quegli sciiti che concordano con la loro protesta il boicottaggio del nuovo parlamento, sostenute magari la forme di disobbedienza civile come è stato preannunciato durante la manifestazione di ieri. Il “processo politico” che sta tanto a cuore a Bush per tirarsi fuori dal pantano dunque di essere non solo agitato ma anche di uscire decisamente dai binari tracciati dall’Amministrazione Usa attraverso il comando della coalizione; e questo grazie anche alla maturità della resistenza che ha saputo intrecciare l’uso dell’arma politica a quello delle armi vere e proprie. Tutto ciò rischia di complicare ulteriormente le trattative per la formazione del governo, rivelatesi subito difficili, ancor più di quelle (che già richiesero un paio di mesi) per far nascere all’inizio dell’anno il governo “provvisorio” di Jaafari. Il presidente Talabani, curdo, sia conducendo consultazioni essenzialmente con quegli sciiti che hanno accettato di collaborare con gli americani (pur avendo nel programma elettorale il ritiro delle loro truppe) sperando in tal modo di diventare arbitri del potere.
La logica sembra essere cioè ancora una volta quella della spartizione del potere fra curdi e sciiti mettendo ai margini i sunniti, il cui peso sociale e politico è comunque superiore alla loro consistenza numerica (20 per cento); anche se ieri Abdul Haziz Hakim, leader della principale formazione sciita, il Consiglio supremo per la rivoluzione islamica (Sciri), fiutando evidentemente l’aria che tira ha detto di essere «d’accordo sul fatto che dovremmo formare un governo di unità nazionale». Che il processo politico sia allo stato delle cose volutamente sbilanciato a favore degli sciiti “moderati” (ma filo-iraniani) di Hakim e dell’ayatollah Sistani nonché dei partiti indipendentisti curdi è emerso fra l’altro con impressionante chiarezza dall’analisi del voto tra le forze di sicurezza irachene: qui i sunniti hanno avuto solo il 7% dei voti, gli sciiti (che sono maggioranza fra la popolazione) il 30% e i peshmerga curdi – miliziani incorporati di fatto nelle “nuove” unità – addirittura il 45%, pur essendo la loro etnia il 20% della popolazione; il che spiega fra l’altro perché la resistenza (ma anche gli uomini di Al Zarqawi) attacchino sistematicamente la polizia e l’esercito. Fra l’altro proprio i peshmerga curdi hanno partecipato come reparti di élite agli attacchi americani su Falluja e Ramadi, il che contribuisce a scavare un solco con la comunità sunnita che rifiuta le loro tendenze separatiste, mentre le milizie sciite dello Sciri si sono dedicate prevalentemente al controllo del territorio nella regione meridionale di Bassora (meno nei sobborghi sciiti di Baghdad dove è forte il leader radicale Moqtada Sadr che si oppone recisamente all’occupazione Usa). E intanto si allunga quotidianamente la lista delle vittime americani: lunedì notte due piloti di elicottero sono rimasti uccisi quando il loro velivolo si è schiantato al suolo alla periferia della capitale; sembra si sia trattato di un incidente, il comando Usa afferma che «non c’è stato fuoco ostile». E’ stato invece ferito in combattimento il marine morto sempre lunedì nell’ospedale militare. Con quelli citati ieri, cinque nuovi caduti americani nell’arco di 48 ore.