Iraq, la camera Usa suona la ritirata

E’ passata con 218 voti contro 212 ed è la cosa più «tosta» che sia stata fatta finora dal Congresso contro la sciagurata guerra di George Bush in Iraq. Nella legge che approva lo stanziamento degli ulteriori 124 miliardi di dollari chiesti dal presidente, la Camera dei deputati ha inserito un passaggio che impegna il governo (e stavolta non si tratta di una mozione «non vincolante») a porre fine alla presenza delle truppe americane in Iraq entro il settembre 2008.
Alla Camera i democratici hanno 233 seggi e i repubblicani 201, il che vuol dire che non tutti i democratici e non tutti i repubblicani hanno votato con i rispettivi partiti. Ma mentre i reprobi repubblicani sono stati solo due, quelli democratici sono stati 14. A dissentire sono stati quelli che volevano il ritiro immediato delle truppe, considerando la scadenza dell’autunno 2008 (cioè a ridosso del voto per eleggere il prossimo presidente) troppo lontana nel tempo. Le loro ragioni sono state sintentizzate dal più liberal di tutti, Dennis Kucinich, già candidato «di testimonianza» alla Casa bianca: «Se volete la pace, ponete fine al finanziamento di questa guerra». Una strada che la maggioranza considera non percorribile nel timore che il contrattacco di Bush («vogliono lasciare i soldati senza rifornimenti») possa ancora avere una certa presa.
Il voto contrario dei liberal, comunque, è stato studiato in modo da non pregiudicare il successo dell’iniziativa (hanno votato «secondo coscienza» ma non hanno fatto campagna fra i loro colleghi) e soprattutto in modo da evitare di fare il gioco di quelli più lontani da loro, cioè i democratici moderati che si mostravano riluttanti a privare i capi militari della «necessaria flessibilità» e naturalmente i repubblicani che hanno votato quasi compattamente contro quella che considerano una «ammissione di fallimento» dell’avventura irachena – come se servisse un voto per stabilire che l’Iraq è un fallimento.
Chi esce meglio dall’intera faccenda è Nancy Pelosi, la speaker della Camera, sulle cui capacità di portare la cosa in porto non tutti erano pronti a giurare. Lei ha lavorato infaticabilmente per giorni, discutendo con i deputati democratici uno per uno, e quando ieri sul tabellone è apparso il risultato del voto e lei lo ha ufficialmente sanzionato con il colpo di martello ha liberato la propria tensione con una perentoria dichiarazione: «Il popolo americano ha perso fiducia nel presidente. Il popolo americano vede la realtà della guerra, il presidente no». Incassando così il senso politico dell’intera operazione.
L’obiettivo di questa iniziativa, infatti, non era e non poteva essere che esclusivamente politico, senza un immediato effetto sulle sorti della guerra, per almeno tre ragioni. La prima è che Bush, per inopinato che ciò possa suonare, è costituzionalmente il comandante in capo e solo lui può prendere le decisioni di guerra. La seconda è che l’approvazione di una legge simile a questa, attualmente in corso al Senato, si prospetta molto più difficile. La terza è che anche se il Senato dovesse riuscire con molta fatica ad approvarla, la procedura prevede che le due leggi debbano essere «armonizzate», che il risultato finale di quel lavoro venga spedito a Bush per la firma, che lui si rifiuti di firmarla ponendo il veto e che Camera e Senato non possano fare più nulla perché i due terzi dei voti per rovesciare un veto presidenziale non ce li avranno mai.
Bush ha subito reagito con un’invettiva lanciata in una scenografia ben studiata dai suoi addetti all’imagine. «Una piccola maggioranza di deputati – ha detto circondato da reduci dall’Iraq e da parenti di soldati al fronte – ha abdicato alle proprie responsabilità votando una proposta che non ha alcuna possibilità di diventare legge ma crea ritardi nel fornire ai nostri soldati ciò di cui hanno bisogno. L’idea dei democratici è che più loro ritardano il finanziamento più io mi convincerò ad accettare una fine artificiale della guerra. Questo non accadrà mai». Aveva tecnicamente ragione. La differenza fra lui e il «popolo americano» menzionata da Pelosi è sempre più evidente.