Iraq, i militari contro Blair

In serata Tony Blair ha provato a metterci una pezza, fornendo a giornali e televisioni la sua personalissima interpretazione delle dichiarazioni esplosive del capo di stato maggiore dell’esercito britannico. Sir Richard Dannat, in un’intervista al Daily Mail, aveva usato parole non proprio lusinghiere per l’avventura che il governo laburista sta regalando ai soldati di sua Maestà in Iraq (119 morti dall’inizio del conflitto). «Non dico che le difficoltà che stiamo incontrando in giro per il mondo sono causate dalla nostra presenza in Iraq, ma quest’ultima certamente le accentua», ha esordito Dannat, a capo dell’esercito dall’agosto scorso. E ancora: «Dovremmo andarcene presto, perché la nostra presenza aumenta i problemi di sicurezza». «La storia dimostrerà che la pianificazione della fase immediatamente successiva a quella dei combattimenti è stata scarsa, forse basata più sull’ottimismo che su previsioni reali». «Siamo in un paese musulmano e il modo in cui gli islamici vedono gli stranieri nei loro paesi è chiaro. Come straniero sei il benvenuto se sei stato invitato. Ma noi non siamo stati invitati: con la campagna militare del marzo 2003 siamo entrati sfondando la porta».
«Senza precedenti in epoca moderna». Così il quotidiano Guardian ha definito l’intervento del generale. Ma Blair ha detto di sottoscriverne «ogni parola», anche se quelle dichiarazioni avevano entusiasmato il movimento pacifista che da tre anni e mezzo porta in strada centinaia di migliaia di persone per protestare contro le politiche di guerra del suo governo. Secondo il premier, le frasi del capo dei 7.000 militari che occupano la Mesopotamia assieme a 140.000 americani indicano la prospettiva di un ritiro «quando il lavoro sarà completato» e la possibilità di rimuovere i soldati da aree dove non ce n’è più bisogno. Ma sia Blair sia il suo probabile successore, il ministro delle finanza Gordon Brown, nel recente congresso laburista di Manchester avevano detto chiaramente che, per dirla con le parole di quest’ultimo, «faremo ogni sforzo e troveremo tutte le risorse necessarie affinché l’Iraq, l’Afghanistan o qualsiasi altra parte del mondo non si trasformino in nascondigli sicuri per terroristi». Dunque hanno suggerito che le truppe resteranno in Iraq ancora per anni.
I generali – ed è questo il sentimento di cui il capo di stato maggiore si è fatto interprete – sono profondamente scontenti di come la politica abbia seguito gli americani nelle campagne in Iraq e in Afghanistan. Ritengono che all’esercito siano stati forniti in entrambi i casi mezzi inadeguati e che l’armata sia ormai ai limiti del collasso per l’impegno troppo gravoso e su troppi fronti.
Ma il fragore della «bomba» sganciata dal capo dell’esercito britannico è arrivato presto oltre Oceano e ha causato le reazioni statunitensi. «Le considerazioni sono state estrapolate dal contesto e il suo (di Dannat ndr) punto di vista generale è che quando il lavoro è finito bisogna trasferire l’autorità agli iracheni», ha dichiarato alla Reuters Tony Snow. Il portavoce della Casa Bianca ha concluso quindi che «gli iracheni hanno detto che vogliono che la nostra presenza continui».
E la bordata del generale è arrivata nel giorno in cui la magistratura britannica che indaga sulla morte di Terry Lloyd, giornalista britannico della rete privata Itv morto in Iraq il 22 marzo 2003, ha concluso che il reporter fu «ucciso illegalmente» dai soldati americani. Andrew Wlaker, il «coroner» incaricato delle indagini, ha annunciato che chiederà alla procura l’incriminazione dei militari coinvolti nell’«incidente». «Il reporter fu ucciso da un proiettile alla testa, mentre copriva per il notiziario della sua tv l’inizio dell’invasione militare dell’Iraq, nel corso di una sparatoria in cui perse la vita anche il suo interprete libanese, mentre due cameraman, un belga e un francese, rimasero feriti. Sua moglie, Lynn, e sua figlia Chelsey, hanno chiesto il rinvio a giudizio dei marines americani che aprirono il fuoco sui giornalisti. «I soldati che hanno sparato sui civili e coloro che diedero l’ordine devono essere sottoposti a processo in base alla Convenzione di Ginevra», si legge in una dichiarazione diffusa dall’avvocato della vedova Lloyd. «È stato un proiettile americano ad uccidere mio padre», ha accusato la figlia Chelsey.
Il Pentagono ha respinto le conclusioni dell’indagine. Secondo il ministero della difesa statunitense i militari rispettarono le regole d’ingaggio.