Iraq, «disastro compiuto»

L’offensiva lanciata dalla guerriglia irachena contro le forze statunitensi si è estesa ulteriormente ieri nella provincia ribelle di Anbar (Ramadi e Falluja) ad ovest della capitale, e nella vicina regione di Diyala a nord-est di Baghdad, mentre alla periferia della capitale, nel ghetto sciita di Sadr City, e nel sud del paese, continuano gli scontri tra le milizie «filo-iraniane» (la «Badr Brigade»), che controllano le nuove forze di polizia irachene – sostenute dai militari Usa – e quelle «nazionaliste- arabe» del leader sciita radicale Moqtada al Sadr contrarie ad una frantumazione dell’Iraq. Uno scontro che ha portato ieri, per la prima volta, alla clamorosa chiusura – fino a nuovo ordine – della moschea dalla cupola d’oro di Najaf, il santuario dell’imam Ali, il luogo più caro agli sciiti di tutto il mondo.
Il bilancio degli scontri delle ultime ore è pesantissimo per gli occupanti: sarebbero otto i soldati americani uccisi, ai quali vanno aggiunti anche un sottufficiale medico britannico saltato su una mina vicino Basra, e quaranta agenti iracheni uccisi nei pressi di Baqouba. Ancora più grave il bilancio per la popolazione civile. Una cinquantina i corpi ritrovati all’alba a Baghdad, massacrati dagli squadroni della morte sciiti filo-governativi che hanno anche bombardato con i mortai il quartiere di al Baladiya, sempre nella capitale, dove vivono 4.000 palestinesi sopravvissuti ai massacri di questi ultimi tre anni, uccidendo cinque persone e ferendone una trentina.
L’offensiva della resistenza irachena, alla base della quale vi è il sempre maggiore sostegno della comunità sunnita – minacciata nella sua stessa esistenza dai partiti filo-iraniani di governo – il coinvolgimento di settori sciiti contrari alla distruzione del paese, quello delle più importanti tribù irachene ed infine l’eliminazione di al Zarqawi e le sempre maggiori difficoltà dei settori a lui fedeli, che considerano la popolazione sciita come il loro obiettivo principale. Questi cambiamenti hanno portato ad un improvviso aumento delle perdite americane in Iraq, soprattutto nella capitale dove nel corso del Ramadan gli attacchi – nonostante siano stati fatti affluire nella capitale altri 12.000 soldati- sono aumentati di almeno un 22%. I soldati Usa caduti durante il mese di ottobre, il più nero dell’anno per l’esercito nordamericano, sono così saliti a cento e il totale dall’inizio della guerra a 2.810 morti e 44.777 feriti. Senza contare alcuni pesantissimi colpi ricevuti in questi giorni come la semidistruzione della base «Falcon», con i suoi depositi di armi, a sud di Baghdad, nei pressi del quartiere di Dora. Una attacco seguito a potentissime esplosioni, forse anche di munizionamento non convenzionale, nel quale sarebbero stati uccisi diversi soldati americani. Era dal gennaio del 2005, due anni fa, che i militari americani in Iraq non subivano tante perdite. La gravità delle perdite e il caos iracheno, insieme all’avvicinarsi delle elezioni di medio termine, hanno provocato un profondo malumore non solo nell’opinione pubblica Usa ma anche tra le stesse fila dell’esercito e dei suoi generali, soprattutto in pensione. Tra questi John Batiste, che guidò la Prima Divisione di Fanteria nel 2004 e 2005, e che ha dichiarato alla rivista «Salon» che il 7 novembre voterà democratico perché «è ora di cambiare» e l’ex generale Paul Eaton, già responsabile dell’addestramento delle truppe irachene, che ha chiesto di cambiare rotta cominciando dal licenziamento del segretario alla difesa Donald Rumsfeld. Il generale Eaton è stato molto chiaro: «Le cosa potranno cambiare solo se i democratici assumeranno il controllo di camera e senato».
L’Amministrazione Bush sta ora cercando di correggere la rotta ma, non volendo rimettere in discussione l’intero impianto dell’operazione Iraq, continua ad essere essa stessa, in parte, vittima di quel «caos creativo», auspicato e realizzato dai «neocon», con la distruzione dello stato, dell’esercito e delle istituzioni irachene. Il dramma degli Usa è che per ridurre le perdite e diminuire il numero dei soldati in Iraq avrebbero bisogno non solo del sostegno dei partiti sciiti e curdi da loro messi al governo ma anche della comunità sunnita e di quella «maggioranza silenziosa» – di ogni fede ed etnia- contraria al loro progetto di divisione dell’Iraq in tre entità etnico-confessionali (una curda, una sunnita e una sciita ). Divisione prevista dalla nuova costituzione irachena (redata a New York) e da una legge di attuazione che la scorsa settimana ne ha fissato la realizzazione entro diciotto mesi.