Dal più recente sondaggio, quello della Gallup e della tv Cnn, solo il 31 per cento degli americani appoggia la strategia di Bush in Iraq. Ma nella conferenza stampa finale del 2006, il presidente non ha dato alcun segno di ripensamento. Ha anzi dichiarato che l’ invio di altre truppe in Iraq «è una delle opzioni, non ho ancora deciso» e potrebbe avvenire «per una missione specifica cha dia risultati». Ha aggiunto che in ogni caso gli effettivi dell’ esercito e del corpo dei marines negli Stati Uniti aumenteranno di decine di migliaia – 70 mila da indiscrezione del Pentagono – «perché la guerra tra l’ ideologia della libertà e quella dell’ odio sarà lunga e dura». E pur rifiutando di fare previsioni sul 2007 a Bagdad, ha concluso che «porterà decisioni difficili e sacrifici supplementari»: «Chiederò anche di più al partner iracheno – ha aggiunto Bush – perché affronti le sue responsabilità». Il presidente s’ era fatto precedere da un’ intervista al Washington Post dove aveva ammesso per la prima volta che «in Iraq non vinciamo né perdiamo», e aveva annunciato che «le nostre forze in casa e nel mondo sono sotto stress e pertanto vanno consolidate». I giornalisti lo hanno stretto subito d’ assedio: perché aveva sempre sostenuto che in Iraq vinciamo? Perché credevo che avremmo vinto, ha risposto Bush «e lo credo ancora. Voglio che il popolo americano sappia che abbiamo un piano per la vittoria; che le nostre truppe a Bagdad sappiano che le appoggiamo; che gli iracheni sappiano che debbono farsi avanti; e che il nemico sappia che non ce ne andremo». A una domanda più secca: che errori ha commesso? Bush ha ribattuto che non c’ era stati errori: «Il nemico ha avuto successo, ha vanificato i nostri sforzi per garantire sicurezza e stabilità all’ Iraq. Ci ha sorpreso soprattutto la lotta tra sciiti e sunniti a Bagdad». Sul «nuovo corso» per il 2007, il presidente ha ripetuto soltanto che lo delineerà dopo essersi consultato con il ministro della difesa Robert Gates, ieri in visita in Iraq, e con i generali sul campo. Ma tra di lui e il generale John Abizaid, il capo del Comando centrale, e il generale George Casey, il capo delle operazioni, si profila una clamorosa rottura. Stando ai media americani, entrambi hanno respinto la richiesta di Bush di rimanere in carica un altro anno e rientreranno a marzo. La ragione: Abizaid e Casey pensano che la crisi irachena non possa essere risolta da un maggiore intervento militare. Gates ha riferito di avere discusso con essi «dell’ invio di altre truppe e di ciò che si potrebbe realizzare», ma i due generali avrebbero protestato che questa misura acuirebbe la violenza. Dalla conferenza stampa, il «nuovo corso» del presidente sarà il bis del vecchio, e ignorerà completamente i suggerimenti del Gruppo di studio Baker. Bush ha interpretato la sconfitta alle elezioni di metà mandato non come un monito a ritirare le truppe ma un invito a «raggiungere l’ obbiettivo di un Iraq libero e democratico che sappia governarsi e difendersi e sia un partner contro il terrorismo». Ha insistito che fu giusto rovesciare il rais ed è giusto esportare la democrazia in Medio oriente. Ha espresso il suo rammarico solo per i caduti americani, ormai quasi 3.000: «Il mio cuore si spezza per quei giovani». Ha ripetuto il suo «no» ai negoziati con la Siria e con l’ Iran, denunciando la Conferenza sull’ Olocausto di quest’ ultimo. E ha martellato sulla «disastrose conseguenze» di una sconfitta Usa: «La maggioranza degli americani le capiscono e per questo vogliono che andiamo fino in fondo». Una performance che ha profondamente scosso i democratici e che ha sollevato dubbi non solo sulla possibilità di un accordo bipartisan sull’ Iraq, ma anche sulla capacità del presidente di prendere atto della realtà a Bagdad.