Iraq-Balcani. La carta etnico-confessionale nell’occupazione del paese

I devastanti attacchi suicidi di domenica nelle sedi dei due principali partiti curdi nord-iracheni hanno drammaticamente fatto emergere le conseguenze della violenta e sanguinosa «distruzione creativa» dell’Iraq perseguita sino ad oggi dagli Stati uniti con l’introduzione di criteri etnici e confessionali nella vita politica e istituzionale del paese. Tappe fondamentali di questo processo, che rischia di destabilizzare l’intera area del Medioriente, sono state: lo scioglimento, nel mese di maggio, dell’esercito iracheno, uno dei principali collanti multietnici e multiconfessionali dell’Iraq, la nomina nel successivo mese di luglio su basi etniche e confessionali dei membri del Consiglio di governo provvisorio e, nel successivo mese di settembre, con lo stesso metodo, del nuovo gabinetto e infine l’autorizzazione concessa alle milizie curde di continuare ad operare come tali. Il Consiglio di governo nominato dagli Usa è infatti composto da 13 arabi sciiti, cinque arabi sunniti, cinque curdi sunniti, un cristiano e un turcomanno sunnita. Una divisione questa che ricorda tragicamente l’istituzionalizzazione delle varie componenti confessionali avvenuta alla metà dell’ottocento in Libano ad opera della potenza coloniale francese, che avrebbe portato alla sanguinosa guerra civile 1975-90 e al prevalere in ogni comunità degli elementi più reazionari, integralisti e radicali. Non solo. Le autorità di occupazione americane, seguendo in ciò il progetto dei «neocon» filo-Sharon decisi a distruggere l’unità del più importante stato arabo della regione, hanno esteso questo principio etnico-confessionale anche alla nomina dei rappresentanti provinciali e comunali. Si tratta chiaramente di un modo per soffiare sul fuoco delle divisioni etnico-confessionali al fine di minare l’unità del paese e qualsiasi forma di resistenza all’occupazione, allo smantellamento dello stato sociale, al saccheggio delle risorse e dell’economia dell’Iraq. Non contenti di questa disastrosa deriva nella quale al «bene comune» di tutti i cittadini viene sotituito il «bene particolare» della propria comunità confessionale o etnica, l’amministrazione Usa ha cercato, forzando i tempi, di porre questi principi alla base della nuova costituzione provvisoria e delle future istituzioni irachene in vista del «passaggio dei poteri» al nuovo governo iracheno. Ma a questo punto i nodi sono venuti al pettine e nel paese è cresciuta la richiesta di arrivare ad elezioni dirette per il parlamento. Il casus belli è stato proprio il tentativo degli Usa, o per meglio dire i settori più vicini ai «neocons», e dei partiti separatisti curdi di sancire la divisione del paese su basi etniche e confessionali con la creazione di una entità separata curda non solo nelle tre province a maggioranza curda di Arbil, Dohuk e Suleimaniya, autonome dal 1991 ma a Kirkuk, la capitale petrolifera del nord a maggioranza arabo-turca. Il via libera dato da Bremer ai due leader curdi Talabani e Barzani, la pulizia etnica ai danni di arabi e turcomanni (sunniti e sciiti) e la promessa da parte dello stesso Barzani di un «ritorno» a Kirkuk di oltre 300.000 curdi che si dovrebbero prendere le case e le proprietà di altrettanti arabi e turcomanni, hanno dato fuoco alla polveri e unito contro l’ipoteesi di secessione non soltanto la stragrande maggioranza della popolazione irachena ma anche tutti paesi confinanti con l’Iraq, soprattutto Turchia e Siria. Nelle scorse settimane l’amministrazione Bush, e ancora più gli stessi leader iracheni pro-Usa, hannocominciato a frenare sulla prospettiva della secessione ma i partiti curdi non sembrano più disposti a tenere conto dell’«interesse nazionale» dell’Iraq.

Così il 30 gennaio, a 24 ore dalla promessa fatta al leader turco, Recep Tayyep Erdogan, dal presidente George Bush e dal ministro degli esteri Usa Colin Powell sulla intangibilità delle frontiere dell’Iraq ecco che le autorità curde hanno lanciato una mobilitazione generale in tutto il nord per la creazione di un governo unico delle tre province autonome in vista di un referendum «etnico» sul federalismo, riservato, ovviamente, ai curdi. Una sfida che potrebbe aver dato fuoco alle polveri.