Quanti conoscono realmente la storia dell’Iraq, paese di cui pure si discetta ogni giorno sui giornali e dentro le istituzioni, le quali assumono decisioni decisive in relazione a questo pezzo di Medio Oriente la cui sorte è oggi a sua volta decisiva per il futuro non solo di quella regione ma più in generale di tutti noi? Il primo merito – ma ce ne sono anche molti altri – dell’ultimo libro di Tariq Ali appena uscito nell’edizione italiana (Bush in Babilonia-La ricolonizzazione dell’Iraq, Fazi Editore 2004), è di raccontarcela fornendoci una informazione assai ricca e in larga parte inedita in particolare per quanto riguarda le vicende drammatiche della sinistra irachena. Io non sapevo, per esempio, ma credo non lo abbiano saputo anche molti «specialisti», che nel 1968 ci fu persino un tentativo «guevarista»: un gruppetto di comunisti, guidati da Khalid Ahmed Zaki (naturalmente poi massacrato) che cercò di creare, sull’esempio del Che in Bolivia, un fuoco guerrigliero nelle paludi meridionali, proprio nella zona dove è collocata Nassiriya. (Quanto occidentalcentrista sia anche nella sinistra la conoscenza della storia non cessa di stupire, come del resto ha dimostrato anche l’ultimo Forum sociale mondiale di Mumbai dove sono state appena «scoperti» centinaia di milioni di «soggetti politici» di cui si era finito per perdere il conto.)
Ma del resto quando mai fu ricordato anche in occasione della scellerata invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein che, pur tuttavia, quella «nazione» in realtà non esisteva, essendo nata dal segno a matita rossa (mai legalizzato da un accordo ratificato) tracciato nel 1923 da sir Percy Cox, rappresentante di sua Maestà britannica, su indicazione del geologo Crisholm che in quella zona aveva scoperto il petrolio e aveva suggerito di metterla sotto la sovranità di un volenteroso sceicco che lì allora pascolava le sue greggi, piuttosto che lasciarla nelle mani dell’Iraq, che, quale che fosse il regime, era comunque pericolosamente popolato di uomini con alle spalle una lunga storia di rivolte antimperiali? La storia dell’Iraq è importante in questa vicenda. Perché è storia di ininterrotte ribellioni popolari: è qui, a Bassora, che già nel IX secolo sono apparsi i primi germi di un socialismo militante cui tutt’ora si richiama il sindacalismo irakeno; è a Bagdad che, già nel 1920, ebbe luogo la prima grande rivolta anticoloniale. L’Iraq delle rivolte è il titolo di un bellissmo libro (mai tradotto in Italia) scritto quarant’anni fa da un francese, Pierre Rossi, che vi aveva vissuto a lungo. Il volume uscì nel `62, quando l’ultima rivoluzione, quella di Qassem, era già degenerata ma ancora in vita, e però nelle ultime pagine Rossi scrive, premonitore, che occorre star attenti a giudicare l’Iraq, perchè qui c’è una tradizione di battaglia, diversa da quella dei paesi vicini; e che non bisogna guardare, per capirlo, ai generali ma a «popolazioni coscienti», «inquadrate da capi che non hanno bisogno di stellette per farsi ubbidire, discreti ma terribilmente attivi, indecifrabili operai della storia invisibile, che nessun giornalista è ancora riuscito a depistare e che nemmeno lo stesso governo di Baghdad conosce bene. Sono il segreto di stato del vecchio Iraq». «Rivolte, repressioni, jaqueries, grandi paure, capitali ridotte in polvere. Ma la sua rivolta per il pane l’Iraq l’ha trasformata, a modo suo, in protesta della coscienza individuale contro lo Stato. La dottrina dissidente sciita, che ha spezzato l’unità dell’Islam, ha fatto dell’obiezione di coscienza una forza politica che è l’elemento fondamentale dello spirito pubblico irakeno».
Scusate la lunga citazione, ma il cenno che Tariq Ali fa a questa opera preziosa mi ha spinto ad andarla a ritrovare fra i miei libri e sono rimasta colpita da quelle parole scritte da Rossi tanto tempo prima ma che avrebbero potuto esser state scritte ora. Ieri come oggi la storia irachena dice quanto miope sia stata l’ipotesi di ridurre il paese al silenzio una volta fatto saltare Saddam e la sua cricca. «Il popolo iracheno è malato» ripetono, in cerca di giustificazioni, i commentatori americani nei tanti editoriali e nelle interviste riportate da Tariq Ali, tutti incapaci di capire in che razza di paese hanno messo piede. «Noi siamo la sua chemioterapia» – sentenzia addirittura un colonnello americano. E davvero la cosa più triste di questa guerra, prima ancora dei morti ammazzati iracheni, sono i volti smarriti e un po’ ebeti dei soldatini yankee, capitati in un paese così diverso da come gli era stato raccontato, così ottusamente chiusi negli orizzonti angusti della claustrofobica cultura americana.
Il merito essenziale di Bush in Babilonia sta nel restituire dignità e legittimità all’opposizione irachena, usando finalmente a piene lettere le parole «occupazione straniera» e «resistenza», che anche parte del movimento pacifista sembra talvolta far fatica a pronunciare. Quasi che tutti si fossero scordati, pur richiamandosi continuamente all’Onu, che proprio la carta delle Nazioni unite riconosce a tutti i popoli il diritto a resistere con le armi all’occupazione straniera, ben distinguendo così fra attacco e difesa. Perché, c’è da chiedersi, questa difficoltà a definire occupazione e resistenza per quello che sono nel caso dell’Iraq? Si dirà: perché anche se è vero che l’intervento militare non doveva esserci è tuttavia pur vero che la guerra ha liberato l’Iraq da una odiosa dittatura. Le resistenze antifasciste o anticoloniali erano invece mirate contro occupazioni straniere che esercitavano direttamente o sostenevano poteri dispotici. Anche senza voler ricorrere alla contabilità che tenta Edoarda Masi in un suo articolo recente – gli iracheni stavano meglio con Saddam di quanto stiano ora – giustificazioni di questo tipo sono assai pericolose: in linea di principio perché legittimano un diritto di intervento esterno privo di qualsiasi mandato che si fonda sulla inaccettabile pretesa di incarnare una superiore civiltà; in linea di fatto perché la coalizione che occupa l’Iraq si guarda bene dal conferire il potere di decidere del proprio destino alla popolazione del paese «liberato». Le forze alleate che hanno avuto un ruolo determinante nella caduta di Hitler e Mussolini si sono mosse in appoggio a popoli i cui paesi erano stati occupati e quando la Germania nazista annunciava – ed aveva la forza economica e militare per rendere effettiva la minaccia – di voler annettere ulteriori parti d’Europa. Per questo a Monaco sarebbe stato necessario fermare Hitler, mentre quali che siano stati gli orrori di Saddam, l’Iraq , lo sappiamo, non poteva minacciare nessuno,
Spettava agli iracheni il diritto e il dovere di fare i conti con il regime del paese, ad una loro rappresentanza popolare credibile di chiedere eventualmente aiuto. Nulla, insomma, può giustificare l’occupazione attuale del paese ed è ben per questo che non è consentito alcun tentennamento – opeggio, come sta accadendo in parlamento in occasione del rifinanziamento della missione italiana a Nassiriya – nel negare legittimità alla presenza militare italiana a fianco della coalizione anglo-americana in quel paese. Ma, ecco l’altra obiezione che percorre il fronte di chi pure si è schierato contro la guerra: in Iraq non c’è, o non c’è solo, resistenza: c’è terrorismo. Qui il ragionamento si fa più complesso. Non solo perché occorre stare assai attenti a non ridurre tutte le possibili forme di resistenza alla sola categoria di terrorismo, ma anche perché è sempre più difficile distinguere l’una dall’altro ricorrendo a vecchi criteri. La differenza starebbe nella natura delle vittime colpite, a seconda siano civili o militari? Sì, per certi versi ed è vero che la Resistenza antifascista prestò sempre attenzione a questa distinzione. Ma le bombe gettate su Hiroshima o su Dresda non avevano come vittime predestinate (nemmeno sotto la forma ipocrita dei «danni collaterali») proprio milioni di civili? Per non parlare di quanto fa l’esercito israeliano nei territori occupati palestinesi. «La tecnologia – scrive in proposito Jacques Derrida – brucia ogni distinzione fra guerra e terrorismo, perché ha cambiato il rapporto fra terra, territorio e terrore (basta ormai attaccare il network informatico di un paese, per colpirne il centro nevralgico)».
Non è distinguendo nelle forme di lotta che si può arrivare a distinguere. Con il rischio costante di prendere le distanze dalla resistenza armata in sé, anche quella mirata a respingere l’aggressione/occupazione, e perciò necessaria e legittima, in nome di una interpretazione della non-violenza quale è emersa anche nel recente dibattito apparso sul manifesto e su Liberazione, che a me è francamente sembrato non privo di ambiguità. Se si trattava di dire che la guerra non può più in alcun caso essere levatrice di rivoluzioni, questo l’aveva già riconosciuto Togliatti, nel lontano discorso di Bergamo del `62. Ma comunque le guerre non è mai stato il movimento operaio a volerle. Come sappiamo bene. Altro è piuttosto andare a rivedere criticamente tutti i casi in cui si è finito per dar più peso alle armi che alla politica.
E’ qui, in nome di questa distinzione necessaria che nutro invece qualche dubbio su alcuni giudizi di Tariq Ali. La resistenza si distingue dal terrorismo quando si propone di coinvolgere le masse, di diventare lotta di popolo (e si organizza a questo scopo); di costruire alleanze interne ed internazionali, coalizioni, di esprimere un progetto di potere alternativo e dunque di mantenere al primo posto la politica e non le armi. Questo è il salto qualitativo che ancora non si riesce a intravedere in Iraq e perciò la dimensione terrorista finisce per assumere un ruolo prevalente. Si dirà, come dice Tariq Ali, che questo è un processo di lungo periodo, che la resistenza irachena è ai suoi primi passi e non si può pretendere che abbia raggiunto il livello che altrove è stato il risultato di anni di maturazione. E’ vero, tanto più vero se si pensa alla sproporzione dei rapporti di forza, più enorme di quanto sia mai stata nella storia moderna. Ma proprio per questo – ecco un altro punto di disaccordo con Bush in Babilonia – bisogna sforzarsi di costruire consenso, di lavorare sulle contraddizioni che nonostante tutto si sono manifestate anche in occasione della guerra all’Iraq: fra paesi europei; fra questi, molti paesi del Terzo mondo e gli Stati uniti; in seno all’Onu; nello stesso movimento pacifista (e perfino all’interno dei partiti del centro-sinistra italiano). Se tutti vengono considerati nemici, o falsi amici, il terrorismo, nel senso del gesto isolato e disperato – questo sì estraneo alla tradizione del movimento operaio – finirà per prevalere.
Sarebbe comunque meglio discutere dell’illegittimità dell’occupazione – ed evitare di rifugiarsi in bizantinismi suicidi per non dire no alla presenza delle truppe italiane in Iraq – piuttosto che delle eventuali forme illegittime della resistenza.