IRAK: UNA GUERRA E I SUOI PERCHÉ

controllo dell’Eurasia, armi e petrolio

Che ci sarà la guerra
appare meno inconcepibile che a ogni altro proprio a coloro cui lo slogan
“C’è la guerra”
ha permesso e coperto ogni vergogna”
[K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità]
Il più grande favore che gli Stati Uniti abbiano mai fatto al Giappone militarista
fu quello di distruggerlo militarmente. La nostra vittoria ha aperto la strada
alla prosperità, alla democrazia, ed a una pace feconda.
Il popolo iracheno sarebbe lieto se gli facessimo lo stesso favore.
[Jonah Goldberg, War: What Is It Good For?]
Lo spodestamento, diretto dagli Stati Uniti, del presidente iracheno Saddam Hussein
potrebbe aprire un filone d’oro per le compagnie petrolifere americane
a lungo bandite dall’Irak, facendo naufragare accordi petroliferi
conclusi con Bagdad da Russia, Francia e altri paesi,
e provocando un rimescolamento dei mercati petroliferi mondiali.
[Washington Post, In Iraqi war scenario, oil is key issue]
Se agli americani riuscirà a Bagdad quello che già hanno fatto a Kabul, sostituire
un regime ostile con uno amico, faranno del Medio oriente e dell’Asia centrale
un’area geostrategica unica, una vasta zona sotto la loro influenza diretta.
[Alberto Negri, Il greggio iracheno sulla scacchiera americana, il Sole 24 Ore]

Wall Street dice sì alla guerra

I mercati finanziari, ultimamente, sono piuttosto nervosi. Del resto, i motivi non mancano: scoppio della gigantesca bolla speculativa dei titoli tecnologici, profitti calanti, scandali montanti. E poi c’è la guerra. A quest’ultimo proposito, però, è bene non equivocare: i grandi investitori che muovono miliardi di dollari (quando si parla astrattamente di “mercati finanziari”, si parla di loro) non sono diventati pacifisti. Per loro (a differenza che per gli iracheni) la guerra non è un problema in sé, ma in quanto viene annunciata e non viene fatta. Il Financial Times del 21 settembre ha messo nero su bianco questa verità, senza falsi pudori: “alcuni analisti sono preoccupati: una prolungata inazione potrebbe danneggiare i mercati più di un intervento militare”. Morale della favola: “sbrigatevi a fare questa guerra”. Ma siccome può sembrare di cattivo gusto evocare ammazzamenti soltanto per guadagnare qualche punto percentuale sui propri titoli di borsa, si usano complicate circonvoluzioni come la seguente: “È un inquietante paradosso, legato allo stato febbrile che questo autunno caratterizza i mercati finanziari, il fatto che la guerra, che per mesi ha gettato la sua ombra sulle prospettive di ripresa dell’economia, ora può costituire l’unico modo per far sì che la ripresa ci sia davvero” [ancora il FT, 3 ottobre]. Nella stessa direzione vanno i recenti rapporti di due banche d’investimento come la Goldman Sachs e la Salomon Smith Barney: a loro avviso, in 6-12 mesi le Borse possono produrre “solidi ritorni”, soprattutto in caso di “guerra pulita” (eufemismo per “rapida”), meglio ancora se dietro il paravento dell’Onu.
Qualcuno poi, come David Kotok (della società di investimenti Cumberland Advisors), parla chiaro senza troppi giri di frase: “Se guardiamo ai normali modelli di valutazione, non potremo mai capire questi mercati finanziari semplicemente perché non siamo di fronte a un normale ciclo economico, ma dinanzi a una guerra. Il mio termine di paragone è rappresentato dai quattro anni successivi all’attacco a Pearl Harbor: è vero, le azioni scesero del 12% fra il 1941 e il 1942. Ma poi, mentre la vittoria si faceva più vicina, venne il rialzo e la Standard & Poor’s raddoppiò di valore tra il 1943 e il 1946”. Quanto sopra, secondo una recente ricerca della London Business School, vale per tutte le guerre che hanno visto impegnati gli Stati Uniti dal 1914 ad oggi. Per citare solo gli esempi più prossimi, il giorno dell’attacco Usa all’Irak del 1991 il mercato salì del 4%, e in un mese la borsa americana guadagnò il 15%. Dall’inizio della guerra in Afghanistan (7 ottobre 2001) all’accordo di Bonn per la formazione del governo filoamericano di Karzai (6 dicembre 2001) la borsa Usa ha guadagnato più del 10%, e questo nonostante il fallimento Enron, accaduto in novembre.
Questa inquietante concomitanza tre guerre e crescita di Wall Street non è il prodotto della follia degli operatori di borsa. Al contrario: le borse non fanno che registrare il fatto che la guerra significa maggiore utilizzo degli impianti, aumento dell’occupazione e della produzione, dei profitti e del prodotto interno lordo. Attenzione, però. Questo è vero soltanto a due condizioni: primo, che la guerra sia combattuta “fuori casa” (detto brutalmente, che sia una guerra di aggressione e che sia vittoriosa); secondo, che il settore legato agli armamenti sia molto rilevante nell’economia del paese che conduce la guerra.
Guarda caso, questa è precisamente la situazione in cui si trovano gli Stati Uniti d’America.

L’industria delle armi.

Le spese militari sostenute dagli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi hanno creato un “complesso militare-industriale” che non ha confronti al mondo. Basti pensare che dalla spesa militare dipendono 85.000 imprese americane, che impiegano milioni di lavoratori. Nell’anno fiscale 2000, le prime 100 tra esse godevano di contratti militari per 82,5 mrd $, di cui 50,6 andavano a queste 10 società: Lockheed Martin, Boeing, Raytheon, General Dynamics, Northrop Grumman, Litton Industries, United Technologies, Trw, General Electrics, Science Applications International.
Dal marzo del 2000 ad oggi, mentre le altre azioni scendevano, la capitalizzazione di borsa delle maggiori imprese della difesa è più che triplicata. E ora, nel momento in cui George Bush jr. autorizza “il maggiore incremento delle spese militari in più di due decenni, invertendo radicalmente la diminuzione del post guerra fredda” [396 mrd $], il Wall Street Journal può dar sfogo al suo entusiasmo: “mentre il rallentamento dell’economia mondiale, più lungo del previsto, devasta molti settori industriali, quello della difesa rappresenta una luminosa eccezione per fornitori, investitori e per chi è in cerca di lavoro” [18.10. 2002]. In effetti, quando leggiamo che il costo della guerra all’Irak è stimato dal governo Usa in 100-200 mrd $, dobbiamo tenere presente che quello che per il governo Usa è un costo, per le industrie Usa degli armamenti è un profitto. Insomma: se i titoli della Lockheed e della Northrop Grumman hanno perso circa il 4% il giorno in cui Saddam Hussein ha scritto la sua lettera di apertura agli ispettori Onu, non si trattava di una fortuita coincidenza.
Va aggiunto che il perimetro delle aziende alimentate dalla spesa bellica Usa è molto più ampio di quello delle industrie che producono armi in senso stretto. Bisogna pensare, infatti, al settore aerospaziale in generale, all’industria dell’elettronica (hardware e software) e all’industria dei nuovi materiali. In definitiva: il settore bellico consente di effettuare a spese dello Stato enormi impieghi di denaro in beni di investimento, in ricerca e sviluppo, nelle tecnologie di punta. È facile trovare esempi di questo: “la seconda guerra mondiale e la guerra di Corea furono una manna dal cielo” per l’industria elettronica, in quanto “il Dipartimento della Difesa fu generoso di finanziamenti alle imprese locali per lo sviluppo dei circuiti integrati”; e “ancora nel 1987 il principale datore di lavoro della Silicon Valley era il colosso aerospaziale Lockheed” [Rampini, la Repubblica, 29.10.2001].
Ma veniamo ai nostri anni. Nel 2000 il 40% degli acquisti del Pentagono era rappresentato da componenti elettroniche e di comunicazione. E si calcola che almeno il 15% degli enormi investimenti destinati da Bush alle armi finirà al settore hi-tech, per un totale di 56 miliardi di dollari. La situazione è stata così sintetizzata, il 22 marzo scorso, sul Sole 24 Ore: la nuova corsa agli armamenti di Bush “è davvero un’iniezione di capitali statali per imprese hi-tech, industrie belliche e centri di ricerca pura e applicata, privati o pubblici. Si tratta di una manovra in grado di mettere, nel medio periodo, le ali a tutto il comparto tecnologico Usa distaccando i paesi europei. Storicamente, infatti, le spese nella difesa si sono tradotte in ricerche innovative prima e, successivamente, in applicazioni e prodotti di nuova generazione per i mercati civili sia per il consumo che aziendali. È accaduto con la seconda guerra mondiale o con la corsa verso lo spazio e ora lo scenario si ripropone”.
In questo contesto, le guerre sono un’opportunità e una necessità. Un’opportunità in quanto da un lato offrono un terreno ideale per lo sviluppo di nuove e più sofisticate armi [in un articolo sull’argomento pubblicato sull’Economist il 10 novembre 2001, il sottotitolo recitava, testualmente: “il conflitto in Afghanistan è un campo di sperimentazione (testing-ground) per la tecnologia degli aerei privi di pilota”], e dall’altro rappresentano la migliore vetrina per esporre le armi da vendere al resto del mondo. A questo proposito è bene ricordare che la vendita di armi ha fruttato agli Usa, nel solo 2000, 55 mrd $ (per inciso, l’80% delle armi vendute ai paesi arabi è prodotto negli Stati Uniti). Ma la guerra è anche una necessità, in quanto le armi debbono essere usate al fine di poterne produrre di nuove da vendere agli eserciti che le usano: anche nel settore militare, infatti, le crisi da sovrapproduzione sono sempre in agguato.
Insomma, non si va molto lontano dal vero se si applicano al “complesso militare-industriale” americano, di cui l’attuale governo Usa è fedele esecutore, le parole che Karl Kraus adoperò all’epoca della prima guerra mondiale: “Il mezzo è diventato fine a tal punto che lo scontro non è altro che un mezzo per arrivare a nuove armi. Una guerra a maggior gloria dell’industria degli armamenti. Non solo vogliamo più esportazioni e perciò più cannoni, vogliamo anche più cannoni per se stessi; e per questo poi debbono sparare”.

La posta in gioco.

Insomma: la guerra fa bene all’economia (americana). Nel caso dell’Irak, poi, la posta in gioco è di enorme importanza. E, ovviamente, non ha niente a che fare con “la democratizzazione dell’Irak” o con le altre favole per allocchi così generosamente elargite alle opinioni pubbliche occidentali. La posta in gioco della nuova guerra contro l’Irak è il rafforzamento del controllo Usa sulle fonti di energia e su un territorio di grande importanza strategica. Da questo punto di vista (non certo da quello della cosiddetta “guerra contro il terrorismo”!) la guerra all’Irak si trova in perfetta continuità con la guerra in Afghanistan. Per capire quali siano le origini dell’interesse Usa nei confronti dell’Irak è sufficiente sfogliare lo studio Sfide energetiche strategiche nel 21deg. secolo, pubblicato nell’aprile 2001 da una task force guidata da James Baker (l’ex segretario di stato Usa ai tempi di Bush padre).
Vi si legge, tra l’altro, quanto segue: “L’Irak continua ad esercitare un’influenza destabilizzante sul flusso del petrolio dal Medio oriente ai mercati internazionali. Saddam Hussein ha mostrato anche l’intenzione di minacciare l’uso dell’arma del petrolio, usando il proprio programma di esportazione per turbare i mercati petroliferi. Così facendo, potrebbe metterebbe in luce la propria forza e rafforzare la propria immagine di leader di tutto il mondo arabo, oltre a esercitare pressioni su altri stati per eliminare le sanzioni economiche contro il suo regime. Gli Stati Uniti devono quindi rivedere immediatamente la loro politica nei confronti dell’Irak, prevedendo controlli militari, sull’energia, e pressioni economiche e politico-diplomatiche”. Il rapporto continuava ammettendo che però “gli Stati Uniti restano prigionieri del loro dilemma energetico”, e che questo comporta la “necessità di un intervento militare”.
Ecco, quindi, la posta in gioco: far rientrare l’Irak, che con i suoi 112 miliardi di barili di riserve è secondo soltanto all’Arabia Saudita, come protagonista del mercato petrolifero mondiale. Il consigliere economico di Bush jr., Lawrence Lindsay, lo ha detto con chiarezza: “se ci sarà un cambio di regime in Irak, si potranno rendere disponibili dai 3 ai 5 milioni di barili di petrolio al giorno in più”. Si potrebbe obiettare che a questo fine sarebbe sufficiente eliminare le sanzioni nei confronti dell’Irak: in fondo, questo è il principale ostacolo al rientro dell’Irak nel mercato petrolifero con un ruolo da protagonista. Ma sarebbe un’obiezione ingenua. Perché quello che interessa agli Usa non è semplicemente rendere disponibile al mondo il petrolio iracheno, ma farlo estrarre dalle proprie multinazionali e farlo passare per i propri oleodotti. Cosa oggi impossibile. E non solo perché in Irak esiste una compagnia petrolifera di Stato (non a caso il Wall Street Journal recentemente ha indicato la sua privatizzazione come compito essenziale del dopo Saddam). Ma anche perché l’Irak di Saddam Hussein in questi anni ha firmato numerosi contratti con compagnie petrolifere di altri paesi per l’esplorazione di pozzi e l’estrazione di greggio. E tra questi paesi non ci sono gli Usa.
Ci sono invece: la Francia (la Total-Elf-Fina ha contratti relativi all’esplorazione di campi petroliferi che dovrebbero contenere dai 14 ai 27 miliardi di barili), la Russia (Lukoil, Zarubezneft Mashinoimport: contratti relativi a 7,5-15 miliardi di barili), la Cina (China National Petroleum Corp.: circa 2 miliardi di barili) e l’Italia (Agip: circa 2 miliardi di barili) [fonte: WSJ 19.9]. Questi contratti sono firmati da tempo, e non possono divenire operativi soltanto per via delle sanzioni. Ma non è finita: nel mese di settembre, infatti, l’Irak ha firmato altri contratti, questa volta per la vendita del greggio iracheno (che prima passava attraverso mediatori per lo più legati alla famiglia Hussein) con 3 compagnie europee: la spagnola Repsol (12,2 milioni di barili al giorno), la francese Total-Fina-Elf (5 milioni), e l’Agip (1,2 milioni).
La risposta americana a tutto questo è: la guerra, il rovesciamento di Saddam Hussein, e l’annullamento dei contratti firmati dal suo regime. Lo ha detto senza mezzi termini James Woolsey (l’ex capo della Cia ai tempi di Bush padre), intervistato come “esperto” [?] dal Washington Post il 15 settembre scorso: Russia e Francia, che hanno compagnie petrolifere e interessi in Irak, devono capire che “se saranno di aiuto nel dare all’Irak un governo decente, noi faremo del nostro meglio per far sì che il nuovo governo e le compagnie americane lavorino con loro”; se viceversa “non separeranno le loro sorti da quelle di Saddam, sarà difficile, per non dire impossibile, persuadere il nuovo governo iracheno a lavorare con loro”. Il concetto è chiaro: Totò Riina non saprebbe esprimersi meglio …

“Parlare a nuora …”

Il 6 agosto scorso il Washington Post ha fatto scoppiare un caso diplomatico, riferendo che nel mese di luglio ai piani alti del Pentagono si era tenuta una riunione nella quale un esperto della Rand corporation, tal Laurent Murawiec, aveva identificato nell’Arabia Saudita il vero nemico per gli Usa, affermando tra l’altro che “l’Irak è l’obiettivo tattico, l’Arabia Saudita l’obiettivo strategico”. In realtà, che il vero obiettivo strategico dell’attacco all’Irak sia quello di ridimensionare il potere dell’Arabia Saudita non è un mistero per nessuno. Infatti, nelle intenzioni americane il rovesciamento di Saddam produrrebbe almeno 3 risultati: costituirebbe un monito contro i paesi realmente (Iran) o potenzialmente (Arabia Saudita) poco obbedienti nei confronti degli Usa; offrirebbe la possibilità di installare direttamente in Irak basi americane (riducendo l’importanza di quelle presenti in Arabia Saudita, se non eliminandole); ridurrebbe il potere del petrolio saudita, consentendo di diversificare le fonti di approvvigionamento.
È quanto scrive Robert Mabro, direttore dell’Oxford institute for energy studies: “Assumiamo che gli Stati Uniti intervengano militarmente e tentiamo di trarne le implicazioni per il petrolio … Primo, l’Irak è un grande produttore di petrolio e potrà diventare uno dei massimi produttori mondiali se verranno fatti gli investimenti necessari a questo scopo. Secondo, influenti lobbies americane vogliono indebolire il ruolo dominante dell’Arabia Saudita nel mercato mondiale del petrolio, riducendone la quota sulle esportazioni mondiali. Per questa ragione, tali lobbies stanno già promuovendo nuovi sviluppi sui mercati petroliferi internazionali: in Africa occidentale, suggerendo alla Nigeria che dovrebbe uscire dall’Opec; in Russia, incoraggiando le compagnie petrolifere private a massimizzare la produzione; nel Caspio, verso cui ormai si rivolgono crescenti speranze. Questi gruppi sperano anche nel rovesciamento del presidente Chavez in Venezuela, con la sostituzione da parte di un governo che sia disposto a massimizzare la produzione di petrolio”. Il tentativo americano di rovesciare Saddam ed installare un “regime amico” in Irak va collocato in questo contesto. Fra l’altro, un Irak docile e sotto controllo consentirebbe di far perdere peso all’Arabia Saudita senza far aumentare più di tanto quello della Russia.
A questo proposito vale la pena di osservare che uno dei fenomeni più importanti del “dopo 11 settembre” è rappresentato proprio dal tentativo russo, sinora coronato da successo, di porsi come produttore energetico chiave per Europa e Stati Uniti; va notato che a questo fine, per dimostrare la propria affidabilità, la Russia ha fatto buon viso a cattivo gioco in Asia centrale, ed aumentato la produzione per rompere la politica dei prezzi dell’Opec (che è a dominanza saudita); all’inizio di ottobre, ha addirittura proposto agli Usa di costituire una riserva petrolifera da mettere a disposizione degli stessi Usa. Ovviamente, non si tratta di beneficenza, ma del tentativo di aumentare la rilevanza della Russia e la sua attrattività nei confronti dei movimenti di capitale internazionali (per inciso, la Borsa di Mosca è l’unica ad avere registrato un buon incremento dall’11 settembre ad oggi). Ora, il rientro in gioco di un Irak sotto tutela americana consentirebbe di ridurre in misura considerevole, nel medio-lungo periodo, il prezzo del greggio: in tal modo sarebbe rotto il cartello dell’Opec, rendendo al tempo stesso meno competitive le risorse energetiche della Russia e del Caspio, che hanno costi di estrazione e – soprattutto – di accessi ai mercati ben più elevati.

Non solo petrolio.

Se quello che precede è plausibile, allora non può destare stupore il fatto che dopo l’11 settembre si siano involati dagli Usa (per dirigersi perlopiù verso la Svizzera) qualcosa come 200 mrd $ di proprietà dell’oligarchia saudita. Si tratta di cifre considerevoli. Anche perché oggi l’attivo finanziario netto dei paesi arabi verso gli Usa ammonta a 450 mrd $ (ossia all’incirca il 40% degli investimenti esteri di portafoglio negli Usa). Ma da quanto abbiamo detto si può trarre una conclusione più importante: che in gioco non c’è solo il petrolio, ma il vero e proprio ridisegno dello scacchiere mediorientale. Del resto, nella minacciosa riunione al Pentagono ricordata più sopra, non si era fatto mistero di ritenere che “l’intera sistemazione data al Medio oriente dopo il 1917 dagli inglesi per rimpiazzare l’Impero Ottomano sta franando”. Questa frase dà il senso come poche altre delle ambizioni Usa nell’area mediorientale. La conclusione logica l’ha tratta di recente uno dei maggiori esperti italiani di problemi energetici, Giacomo Luciani: “quella che si profila all’orizzonte non è né l’ipotesi di un contenimento del Golfo, né quella di un dialogo con gli attuali regimi al potere in quella parte del mondo: ma quella di una rifondazione politica dell’area, che consenta nuove modalità di interrelazione strategica ed economica” [Aspenia, n. 18, 2002, p. 157].
Le “nuove modalità di interrelazione” non hanno per la verità nulla di nuovo; si tratta, invece, di un superclassico: il dominio imperialistico su risorse e aree strategiche fondamentali – da ottenersi, se necessario, anche con la guerra. Ascoltiamo ancora Robert Mabro: con la guerra all’Irak, “se avranno successo, gli Stati Uniti acquisiranno una base sia politica che militare nel cuore del Medio oriente, da cui saranno in grado di esercitare una maggiore pressione su tutti i paesi vicini – Iran, Arabia Saudita e il resto dei paesi esportatori del Golfo, Siria e Giordania. Una presenza militare in Afghanistan, in Irak e in alcune delle repubbliche centroasiatiche dà agli Stati Uniti vantaggi strategici rispetto alla Russia e alla Cina. Chiaramente, in questo caso la posta in gioco va al di là del petrolio”. Sono parole assolutamente condivisibili. Da questo quadro però manca qualcosa: l’Europa. Ed è una lacuna significativa: perché in verità l’Unione europea, e l’area valutaria imperniata sull’euro, sarebbero tra i grandi sconfitti della guerra sotto un profilo strategico.
Infatti, non soltanto le compagnie petrolifere europee sarebbero rimpiazzate da quelle americane in Irak, ma più in generale sarebbero vanificate tutte le iniziative di diplomazia economica messe in piedi negli ultimi anni nei confronti del Medio oriente e dei paesi del Golfo: tra le più recenti, vanno citate almeno la sigla di un accordo commerciale con l’Iran (nonostante la feroce opposizione statunitense) e l’inizio di trattative per la creazione di un’area di libero scambio tra Unione europea e paesi del Golfo, entrambe del giugno-luglio di quest’anno. La gravità di tale battuta d’arresto può essere facilmente compresa ove si considerino: da un lato, la dipendenza energetica dell’Europa da questi paesi; dall’altro, il fatto che l’intero Medio oriente (per scambi commerciali e legami finanziari) gravita principalmente nella zona di influenza dell’euro. Come è stato affermato in una recente ricerca, i paesi del Medio oriente e del nord Africa sono tra i paesi “nei quali probabilmente il ruolo internazionale dell’euro crescerà più rapidamente ed estesamente. Già oggi l’euro gioca in molti di questi paesi un ruolo preminente per la determinazione dei tassi di cambio come riserva in valuta straniera”.
A questo proposito è facile osservare come tanto una “pax americana” sull’area, quanto una situazione di instabilità permanente (se la guerra andasse un po’ meno “bene” del previsto …) danneggerebbero in misura considerevole l’area valutaria dell’euro, allontanando tra l’altro lo spettro (per gli Usa) di prodotti petroliferi pagati in euro anziché in dollari (tale decisione sinora è stata assunta soltanto da Irak e Giordania). In particolare, nel caso di una forte instabilità dell’area sarebbero fortemente colpiti tanto l’esportazione europea verso i paesi arabi del Medio oriente, che è all’incirca tripla di quella Usa (nel 2000 63,7 mrd $ contro 23), quanto le banche europee, che sono di gran lunga le più esposte sull’area (nei confronti di alcuni paesi si supera il 70% sul totale dei prestiti internazionali). Per non parlare dei rischi legati ad un’eventuale interruzione delle forniture di petrolio, che colpirebbero in particolare Asia ed Europa.
Mentre, a differenza di quanto comunemente si crede, il primo fornitore assoluto degli Usa non è l’Arabia Saudita ma il Messico (130,3 mln di barili di greggio tra gennaio e marzo 2002), che guida la classifica degli stati del continente americano, seguito dal Venezuela (119,1 mln) e dal Canada (118,1 mln). L’Arabia Saudita resta in assoluto al secondo posto (129,6 mln di barili), ma la quantità di petrolio che fornisce agli Usa supera di poco 1/3 del petrolio che proviene dagli stati americani citati. Del resto, non è un caso che la Banca centrale europea, di solito molto prudente su tutto ciò che non sia il costo del lavoro, il 12 settembre scorso abbia dichiarato senza mezzi termini che una guerra all’Irak potrebbe danneggiare la “fragile ripresa” [?] dell’economia europea.

Conclusioni

Sulla base delle considerazioni svolte finora, è possibile valutare alcuni argomenti che in questi mesi sono stati proposti, anche da esponenti della “comunità degli affari” (espressione che suona molto meglio di “borghesia finanziaria”), contro la nuova guerra americana.

Tesi 1. La guerra come distrazione dell’opinione pubblica dai problemi dell’economia. Questa tesi la troviamo espressa, con insolita brutalità, anche da compassati economisti ed analisti finanziari. Paola Giannotti De Ponti, responsabile per l’Italia della banca d’affari Dresdner Kleinwort Wasserstein, ha ad esempio dichiarato in un’intervista: “Tutto questo discutere di una guerra che si fa domani, dopodomani, il mese prossimo o a gennaio, va benissimo all’amministrazione Usa perché consente di non discutere della questione vera, e cioè dell’economia che è impantanata e non sa come tirarsi fuori dai suoi guai” [la Repubblica, 14,10.2002]. Più o meno le stesse cose che dice Samuelson (che però sino a pochi mesi va vaneggiava di una ripresa americana dietro l’angolo): “per mantenere la sua popolarità, il presidente ha bisogno della guerra e non d’un dibattito serrato sullo stato dell’economia” [intervista a L’espresso, 10.10. 2002]. È una tesi che contiene senz’altro un elemento di verità, ma, nella misura in cui è adottata come spiegazione unica, risulta insufficiente e riduttiva.

Tesi 2. La guerra come errore e spreco di risorse. Questa tesi è stata fatta propria, sin dal luglio scorso, da un ultraconservatore come Paul Craig Roberts: invece di “sprecare risorse con guerre”, questo il suo suggerimento, il governo americano farebbe meglio ad occuparsi dello stato di salute dei mercati azionari; “è assurdo che l’amministrazione Bush perda tutto questo tempo con Afghanistan, Palestina [?] e Irak quando la sua posizione nel mondo dipende molto più dal suo mercato borsistico che dai suoi armamenti” [Washington Times, 3.7. 2002]. Al contrario: come abbiamo visto più sopra, per Bush & C. fare la guerra rappresenta proprio un modo di occuparsi dei mercati azionari.

Tesi 3. La guerra rischia di fare esplodere il Medio oriente. È la tesi proposta, tra gli altri, dal settimanale economico americano Fortune [8 luglio], ed è stata ripresa ancora di recente da Lucia Annunziata in un suo (sorprendente, visto il personaggio …) libro contro la guerra all’Irak. Questo rischio esiste (anche se gli analisti finanziari gli assegnano una probabilità molto bassa). Però, a meno di scenari catastrofici (lèggi: uso di armi atomiche da parte di Israele e allargamento del conflitto su scala regionale), la cosa più probabile è che esso si materializzi nella forma di una accresciuta instabilità dell’area. Con beneficio del dollaro a scapito dell’euro.

Tesi 4. La guerra rischia di inceppare la globalizzazione. La tesi è questa: l’America ha bisogno della “globalizzazione”, la guerra la rallenterebbe (dando fiato alle spinte protezionistiche) e quindi va rifiutata. A formulare questa tesi è Jeffrey Garten, personaggio a dir poco poliedrico (prima nello staff di Kissinger e Vance, poi ufficiale dell’aeronautica, poi banchiere d’affari …) che è stato sottosegretario al commercio internazionale nella prima amministrazione Clinton. Il suo punto di vista è esposto in un libro [The Politics of Fortune] in cui attacca frontalmente la politica estera di Bush, sostenendo che la sua impostazione di fondo contraddice gli “interessi economici globali” delle grandi corporations americane. Conseguentemente, Garten chiede ai “top managers” di queste imprese di far sentire la propria voce contro questa politica.
A parere di chi scrive, è estremamente improbabile che i managers delle transnazionali Usa levino la loro voce contro la guerra. Per il semplice motivo che l’attuale indirizzo della politica estera Usa è un tentativo di rispondere (in un modo estremamente pericoloso per il mondo) ai gravissimi problemi che attanagliano l’economia americana ed alla necessità di mantenere ed estendere il controllo degli Stati Uniti su risorse ed aree politiche essenziali per il mantenimento della loro egemonia planetaria.
In verità, l’epoca delle chiusure protezionistiche e delle guerre commerciali è già iniziata (il via l’hanno dato proprio gli Usa con l’imposizione di pesanti dazi sull’importazione di acciaio), il meccanismo della “globalizzazione” si è già inceppato. Ma questo non è avvenuto per caso: semplicemente, il processo di liberalizzazione degli scambi che ha caratterizzato gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, pur essendo fortemente asimmetrico e sbilanciato a favore degli Usa e degli altri paesi a capitalismo maturo, si è rivelato inservibile e pericoloso. E questo perché siamo in presenza di una grave crisi di sovrapproduzione, che investe tanto i settori manifatturieri tradizionali (vedi “Fiat”), quanto il settore delle telecomunicazioni.
Il guaio è che, come scriveva Kraus, in casi come questi “il mondo giunge al punto di giustificare i propri bilanci con le bombe”.
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