Io, partigiano, vi racconto chi è Friedrich Engel

Arrigo Diodati, Franco per noi compagni partigiani, ne aveva parlato nei giorni scorsi a Cravasco, località dell’Appennino ligure, ove 56 anni fa era stato fucilato su ordine di Engel nel marzo 1945. Il proiettile sparato dal plotone di esecuzione nazista aveva trapassato la nuca di Franco, restato sepolto sotto i corpi e il sangue di altri 17 patrioti antifascisti prelevati nella notte dalla quarta sezione del carcere di Marazzi, in ottemperanza alla lista scritta di pugno da Engel, capo delle SS e della polizia politica a Genova. Immobile, fingendosi morto, Franco evitava il colpo di grazia, approfittava della confusione del carico dei morti su un camion, per allontanarsi qualche metro, arrampicarsi su un albero e poi rifugiarsi presso una casa contadina. Il giorno dopo, coerente all’insegnamento di un’eroica famiglia di compagni emigrati in Francia dalla Toscana, ritornava alle Brigate Garibaldi per partecipare alla liberazione di Genova e alla ricerca dell’assassino Engel. Ricerca vana; dopo 56 anni Franco mi esprimeva l’amarezza per la giustizia mancata. Mi raccontava del processo di Torino concluso il 15 novembre 1999 con la condanna all’ergastolo da parte del Tribunale militare. Purtroppo i giudici tedeschi nel 1969 avevano frettolosamente archiviata una inchiesta ripresa poi nel 1998 e tutt’ora insabbiata. Ad Engel, responsabile dei quattro eccidi, la Germania non aveva comminato pene, ma conferito la “croce di guerra di prima classe con spade” per la strage della Benedicta, ove furono fucilati 145 partigiani nella Pasqua di sangue nel 1944, il primo dei quattro eccidi che punteggiano ed esaltano la Resistenza genovese. Nell’inverno del ’44 tanti giovani, sfuggiti ai rastrellamenti delle fabbriche e agli ordini di mobilitazione di Graziani, si erano radunati nelle montagne impervie presso il Convento della Benedicta, ai confini tra Genova ed Alessandria. Animatori eccezionali furono due compagni comunisti, medaglia d’oro della Resistenza Giacomo Buranello e Walter Fillak. Buranello sceso in città, catturato in un’operazione gappista, torturato atrocemente in questura fu fucilato il 3 marzo ’44. Sui monti la presenza partigiana dava fastidio ai tedeschi che organizzarono in aprile il rastrellamento con quattro colonne. La risposta fu accanita, ma la battaglia impari. Fillak combatté fino in fondo, ruppe l’accerchiamento, continuò la lotta fino all’impiccagione a Cuorgnè il 5 febbraio 1945, lasciando l’ultima lettera da condannato pubblicata affianco. Molti giovani morirono in combattimento attorno al monastero. 145 prigionieri furono fucilati sul posto; circa 500 deportati in Germania senza più ritorno. Solo una cinquantina furono portati nel carcere di Marassi. Appena 40 giorni dopo, in rappresaglia ad un atto di guerra contro i tedeschi nel cinema Odeon di Genova, questi partigiani, vennero portati al Passo del Turchino, fucilati e seppelliti in una fossa comune. Engel, nominato capo della polizia politica SS, scelse il 19 maggio 1944 personalmente le vittime. Tra esse Walter Ulanowski, mio compagno di quartiere e Valerio Bavassano le cui testimonianze sono raccolte nel volume “Lettere di condannati a morte della Resistenza”. La stoffa di carnefice di Engel si mostrò intera nel terzo eccidio: quello di Portofino del 2 dicembre 1944. Nuova rappresaglia dopo azioni partigiane in città; prelievo notturno di 22 detenuti, tra i quali i giovanissimi fratelli Meldi di Prà, annuncio menzoniero del ritorno a casa. Invece lugubre trasporto a Portofino con i 22 ammanettati l’uno all’altro, imbarco su un battello e affondamento previo inserimento di pietre alle manette. La cronaca odierna si diffonde su “incidenti singoli” e dimentica l’orrore della barbarie commessa in quel sito incantevole. Poi il quarto eccidio a Cravasco poco prima della Liberazione. Uno dei carcerati era ferito, Renato Quartini, per precedente azione gappista; la gamba mal curata andava in cancrena. Per raggiungere il luogo dell’eccidio i 18 condannati dovevano inerpicarsi su pendii scoscesi. Franco Diodati aiutò il ferito, se lo caricò sulle spalle. Un segno di amore e di solidarietà che si contrapponeva all’inciviltà nazista. Non ho trovato in questi giorni Franco; risiede a Roma, assiste la sorella Bianca, altra militante comunista che fu la compagna di Giancarlo Pajetta. Glielo dico oggi con queste parole di ricordo: non si sotterra la Resistenza, con i suoi valori, nonostante le derive, i revisionismi, i tradimenti. In città, tra i compagni e i lavoratori, sono riaffiorate le memorie. Vi sono quattro strade nel ponente genovese: via della Benedicta, via Martiri del Turchino, via Cravasco, via Meldi tutte dedicate alle stragi di Engel e al ricordo di pezzi di storia italiana. Prima del 25 aprile i comunisti porteranno un fiore sulle targhe e sulle lapidi. Insieme all’omaggio ai caduti chiederanno l’estradizione di Engel per un senso di giustizia della storia, che anche tardi, prima o poi arriva.